Tag: contemporary art

07
Feb

L’IMPRONTA DELL’ACQUA. Il Trasimeno tra arte e scienza nell’opera di Roberto Ghezzi

L’impronta dell’acqua, mostra personale dell’artista Roberto Ghezzi, a cura di Mara Predicatori, diffusa in sei diversi spazi di altrettanti comuni umbri, dal 18 febbraio al 16 aprile 2023.

L’impronta dell’acqua è un progetto culturale promosso da Arpa Umbria in collaborazione con Roberto Ghezzi e Mara Predicatori, con il sostegno della Fondazione Perugia, in partnership con l’Unione dei Comuni del Trasimeno, i Comuni di Castiglione del Lago, Corciano, Magione, Panicale, Passignano sul Trasimeno, Tuoro sul Trasimeno e le associazioni Laboratorio del Cittadino e Faro Trasimeno e che ha visto, ai fini della disseminazione, anche la partecipazione di alcune classi delle scuole del territorio e la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti di Perugia.

L’impronta dell’acqua ha l’obiettivo di introdurre nuove forme di progettazione, nuove modalità di produzione scientifica e artistica, nuovi linguaggi liberi e innovativi per parlare del lago Trasimeno. Una mostra e un progetto complesso che intendono restituire una riflessione sulla rappresentazione paesaggistica e delle sue componenti biologiche e naturali attraverso la sinergia tra la pratica dell’artista, lo studio scientifico-biologico dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente – Arpa Umbria – e la rilettura dell’azione in chiave artistica delle pratiche di produzione e rappresentazioni di Roberto Ghezzi. 

Protagoniste del progetto sono le Naturografie© di Roberto Ghezzi, opere inedite che riescono a creare un ponte tra arte e scienza. Si tratta di tele create secondo un processo studiato dall’artista affinché sia la natura stessa a lasciare traccia di sé su supporti collocati nell’ambiente naturale per lunghi periodi. Grazie a questa prassi, Ghezzi è in grado di restituire al pubblico opere di grande fascinazione estetica, ma anche capaci di fungere da matrici di raccolta degli organismi tipici dell’ambiente naturale.
Roberto Ghezzi da anni mappa territori e paesaggi. In due decenni Ghezzi ha realizzato installazioni e ricerche in molti luoghi nazionali e internazionali, legando il suo lavoro a studi sull’ecosistema e sulla biologia in parchi e riserve naturali di tutti i continenti (Alaska, Islanda, Sud Africa, Tunisia, Norvegia, Patagonia, Croazia). In Italia ha realizzato numerosi progetti di ricerca in ogni regione e tipologia di ambiente (Toscana, Emilia Romagna, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Umbria).

Le fasi del progetto: Il progetto ha visto in prima battuta la realizzazione delle opere. Nei mesi di agosto/ottobre-dicembre, intrecciando istanze di ricerca di Arpa e di tipo artistico e pratico, secondo la propria metodologia di lavoro, Roberto Ghezzi ha installato tessuti pretrattati in 4 diversi habitat dell’isola Polvese e altre tele presso la costa di Castiglione del Lago. Una volta che la natura ha compiuto il suo corso e l’artista ha deciso che il processo di formazione delle tele era compiuto, sono state ritirate e si è avviata una fase di studio ecologico e biologico al microscopio da parte di Arpa e una fase di trasformazione dei tessuti in opere adatte per le 6 mostre che si apriranno nel mese di febbraio/aprile 2023.

Da un punto di vista scientifico, l’impronta che la natura ha lasciato su queste tele ha permesso una analisi ecologica da parte di Arpa Umbria, che restituisce una lettura delle peculiarità ambientali ed ecologiche del lago Trasimeno. L’analisi ecologica ha permesso di evidenziare le caratteristiche uniche e particolari del lago e dei suoi abitanti, di evidenziare come l’unicum sia formato da più ambienti ognuno contraddistinto da specifici segni distintivi: la presenza o l’assenza di una specie vegetale o animale, l’insistenza di una architettura o la duttilità di un corso d’acqua, il ruolo dell’essere umano nella tutela o nella distruzione di un ambiente protetto. Lo studio biologico ha esaminato più da vicino le componenti animali, vegetali e minerali che hanno accolto per diversi giorni le tele dell’artista, accettandole nel proprio evolversi, assumendole come parte integrante del proprio divenire. Sulle tele infatti gli insetti si sono riprodotti, le piante hanno trovato supporto per crescere, gli animali matrice per la propria alimentazione. La restituzione di questa integrazione è rappresentata dalle numerose sfumature di colore: ogni organismo ha dipinto la tela con colori brillanti o tenui, secondo il suo essere o il tempo del suo passaggio o del suo permanere. Acqua, aria e terra hanno poi dato il loro contributo spostando, trasportando, rimuovendo, permanendo. 

Da un punto di vista artistico, Ghezzi, pur ancorandosi da un punto di vista scientifico agli specifici habitat in cui interviene e dunque operando secondo una logica site-specific, di fatto porta avanti una ricerca sul linguaggio artistico in sé e più nello specifico una rilettura contemporanea del genere paesaggistico. Come spiega la storica dell’arte e curatrice Mara Predicatori, l’opera di Ghezzi si inquadra nella millenaria riflessione sulla rappresentazione del reale e sulla trasfigurazione che porta con sé. Le tele sono infatti mimetiche rispetto alla realtà che raffigurano (è la natura stessa che lascia la propria materia sulla tela) ma allo stesso tempo, l’immagine non è giammai realistica rispetto al reale ma ne è un rimando simbolico. Nella alchemica collaborazione tra artista e natura risiede il mistero di queste opere, più paesaggio dei paesaggi, eppure di matrice astratta-informale. Un ritorno alla pittura (la logica dei colori, delle trame, la ricerca sul limite tra visibile e non) che tuttavia si innesta sulla pratica performativa, il lavoro site-specific e che nel contrasto tra metodo applicato e arbitrio della scelta creativa sembra eludere il dualismo tra positivismo-romanticismo portando a una terza via di sconfinamento. Nuovi “paesaggi contemporanei” che, a distanza di circa 500-600 anni dalle raffigurazioni in bilico tra paesaggio reale e immaginario del Trasimeno compiute da Beato Angelico (si ricordi la prima raffigurazione del lago nel 1430 nell’Annunciazione presso il Museo Diocesano di Cortona), Perugino e Raffaello, portano a indagare il divenire dell’arte e le plurime matrici linguistiche per farlo. 

Nel mese di febbraio si apriranno le mostre che restituiranno al pubblico i risultati della sperimentazione. Nello specifico, il primo appuntamento è a Castiglione del Lago presso il Palazzo della Corgna di Castiglione del Lago, dove sarà possibile visionare le Naturografie© prodotte in ciascun habitat, installazioni frutto della combinazione di elementi di prelievo e una serie di disegni e rielaborazioni artistiche degli ingrandimenti delle immagini realizzate al microscopio prodotti da Arpa Umbria. 

La mostra, nata come restituzione artistico-poetica e non didascalica, conserverà l’impianto scientifico ed educativo nei rimandi esplicativi presenti tramite QR in mostra e dunque nel sito web dedicato. I risultati del progetto saranno restituiti attraverso una mostra diffusa. Presso Palazzo della Corgna di Castione Del Lago vi sarà una esposizione principale con una restituzione di tutte le Naturografie e opere riferite ai vari habitat campionati. In altri cinque comuni del comprensorio del Trasimeno (Corciano, Magione, Panicale, Passignano sul Trasimeno, Tuoro sul Trasimeno), saranno visibili invece dei trittici dell’autore, appositamente pensati, che forniranno chiavi di lettura plurime al lavoro grazie alla natura eterogenea degli spazi ospitanti che offrono agganci diversi alla ricerca. 

La restituzione, infatti, pur affrontando l’ambiente lago che fa da legante, di fatto fornirà in modo latente un’esperienza estetico/conoscitiva che rifletterà input diversificati e impressioni di tipo multidisciplinare che nascono dal confronto con la storia e altre opere contemporanee (Centro Informazioni presso il Parco Campo del Sole, Tuoro), la ricerca stratigrafica e le testimonianze del territorio (Museo Antiquarium di Corciano), il rapporto con le pratiche del lavoro (Museo della Pesca di San Feliciano), con la rappresentazione della natura nell’opera storica di Perugino (Chiesa di San Sebastiano di Panicale), con la dimensione documentale anche del lavoro artistico (sala comunale di Passignano) a testimonianza ancora una volta del forte legame che unisce l’arte e la scienza

L’IMPRONTA DELL’ACQUA
mostra personale di Roberto Ghezzi
a cura di Mara Predicatori

progetto culturale promosso da Arpa Umbria
con il sostegno della Fondazione Perugia

Sedi Varie, Regione Umbria: Comuni di Castiglione del Lago, Corciano, Magione, Panicale, Passignano sul Trasimeno, Tuoro sul Trasimeno.

dal 18 febbraio al 16 aprile 2023

Maggiori info https://limprontadellacqua.arpa.umbria.it e pagina FB L’impronta dell’acqua https://www.facebook.com/profile.php?id=100088579161889

Communication & media relations
Arpa Umbria – Sez. Comunicazione, Stampa e Relazioni istituzionali 0755156240-892 comunicazione@arpa.umbria.it  
Amalia Di Lanno Comunicazione e Relazioni Media Arte – info@amaliadilanno.com 

09
Mag

Jannis Kounellis

Jannis Kounellis, curated by Germano Celant, is the major retrospective dedicated to the artist following his death in 2017. Developed in collaboration with Archivio Kounellis, the project brings together more 70 works from 1958 to 2016, from both Italian and international museums, as well as from important private collections both in Italy and abroad. The show explores the artistic and exhibition history of Jannis Kounellis (Piraeus 1936–Rome 2017), establishing a dialogue between his works and the eighteenth-century spaces of Ca’ Corner della Regina.

The artist’s early works, originally exhibited between 1960 and 1966, deal with urban language. These paintings reproduce actual writings and signs from the streets of Rome. Later on, the artist transferred black letters, arrows and numbers onto white canvases, paper or other surfaces, in a language deconstruction that expresses a fragmentation of the real. From 1964 onward, Kounellis addressed subjects taken from nature, from sunsets to roses. In 1967 Kounellis’ investigation turned more radical, embracing concrete and natural elements including birds, soil, cacti, wool, coal, cotton, and fire.

Kounellis moved from a written and pictorial language to a physical and environmental one. Thus the use of organic and inorganic entities transformed his practice into corporeal experience, conceived as a sensorial transmission. In particular, the artist explored the sound dimension through which a painting is translated into sheet music to play or dance to. Already in 1960, Kounellis began chanting his letters on canvas, and in 1970 the artist included the presence of a musician or a dancer. An investigation into the olfactory, which began in 1969 with coffee, continued through the 1980s with elements like grappa, in order to escape the illusory limits of the painting and join with the virtual chaos of reality.In the installations realized toward the end of the 1960s, the artist sets up a dialectic battle between the lightness, instability and temporal nature connected with the fragility of the organic element and the heaviness, permanence, artificiality and rigidity of industrial structures, represented by modular surfaces in gray-painted metal. In the same period Kounellis participated in exhibitions that paved the way to Arte Povera, which in turn translated into an authentic form of visual expression. An approach that recalls ancient culture, interpreted according to a contemporary spirit, in contrast with the loss of historical and social identity that took place during the postwar period. Beginning in 1967, the year of the so-called “fire daisy,” the phenomenon of combustion began to appear frequently in the artist’s work: a “fire writing” that enlights the transformative and regenerative potential of flames. At the height of the mutation, according to alchemical tradition, we find gold, employed by the artist in multiple ways. In the installation Untitled (Tragedia civile) (1975), the contrast between the gold leaf that covers a bare wall and the black clothing hanging on a coat hanger underlines the dramatic nature of a scene that alludes to a personal and historical crisis. In Kounellis’ work smoke, naturally connected with fire, functions both as a residual of a pictorial process, and as proof of the passage of time. The traces of soot on stones, canvases and walls that characterize some of his works from 1979 and 1980 indicate a personal “return to painting,” in opposition to the anti-ideological and hedonistic approach employed in a large part of the painting production in the 1980s. Throughout his artistic research Kounellis develops a tragic and personal relationship with culture and history, avoiding a refined and reverential attitude. He would eventually represent the past with an incomplete collection of fragments of classical statues, as in the work from 1974. Meanwhile, in other works the Greco-Roman heritage is explored through the mask, as in the 1973 installation made up of a wooden frame on which plaster casts of faces are placed. The door is another symbol of the artist’s intolerance for the dynamics of his present. The passageways between rooms are closed up with stones, wood, sewing machines and iron reinforcing bars, making several spaces inaccessible in order to emphasize their unknown, metaphysical and surreal dimension.Continue Reading..

30
Apr

Lygia Pape

Fondazione Carriero presents Lygia Pape, curated by Francesco Stocchi, the first solo exhibition ever held in an Italian institution on one of the leading figures of Neoconcretism in Brazil, organized in close collaboration with Estate Projeto Lygia Pape

Fifteen years after the death of Lygia Pape (Rio de Janeiro, 1927-2004), Fondazione Carriero sets out to narrate and explore the career of the Brazilian artist, emphasizing her eclectic, versatile approach. Across a career spanning over half a century, Pape came to grips with multiple languages—from drawing to sculpture, video to dance and poetry, ranging into installation and photography— absorbing the experiences of European modernism and blending them with the cultural tenets of her country, generating a very personal synthesis of artistic practices. Inserted in the architecture of the Foundation, the exhibition represents a true voyage in the artist’s world, organized in different spaces, each of which delves into one specific aspect of her work, through the presentation of nuclei of pieces from 1952 to 2000. The exhibition provides an opportunity for knowledge, analysis and investigation of an artist whose practice embodies some of the key areas of research of Post-War. 

The exhibition Lygia Pape offers visitors a chance to approach the artist’s output and to observe it from multiple vantage points, starting from analysis of her research, a synthesis of invention and contamination from which color, intuition and sensuality emerge. Full and empty, interior and exterior, presence and absence coexist, conveying Pape’s figure and continuous experimentation, sustained by an ability to combine materials and techniques through the use of unconventional modes and languages of expression. Seen as a whole, her research reveals the way each new project develops as a natural evolution of those that preceded it. These connections are highlighted in the display of the works, spreading through the three floors of the Foundation and linked together by a common root, a leitmotif that originates in observation of nature and develops in a maximum formal tension using a reduced vocabulary.
The works on view include Livro Noite e Dia and Livro da Criação, books seen as objects with which to establish a relationship, condensations of mental and sensory experiences. The Tecelares, a series of engravings on wood, combine the Brazilian folk tradition with the Constructivist research of European origin. The exhibition also features Tteia1, the distinguished installation that embodies Lygia Pape’s investigation of materials, the third dimension and the constant drive towards reinvention and reinterpretation of her language.
 Today her work offers interesting tools for the interpretation of the issues of our present, in an approach based less on rules and more on spontaneity, applied by the artist has a key for deconstructing the standards and schemes of preconceptions. 

About Fondazione Carriero
Fondazione Carriero opened to the public in 2015, thanks to the great passion of its founder for art and his desire to share this passion with the public. It is a non-profit institution that joins research activities to commissioning new works for solo, and group exhibitions.

With the creation of a free venue open to everyone, the Foundation aims to promote, enhance, and spread modern and contemporary art and culture, acting as a cultural center in collaboration with the most acclaimed and innovative contemporary artists while also drawing attention to new artists or those from the past who deserve to be reconsidered. From a perspective that joins rediscovery and experimentation, investigations into any form of intellectual expression are joined with commissioning new works.

Lygia Pape
March 28–July 21, 2019 

Fondazione Carriero
Via Cino del Duca 4 
20122 Milan 
Italy 
Hours: Monday–Saturday 11am–6pm H

Contact
T +39 02 3674 7039 
info@fondazionecarriero.org
press@fondazionecarriero.org

18
Apr

Latifa Echakhch – Romance

Fondazione Memmo presenta, da venerdì 3 maggio, Romance, personale dell’artista franco-marocchina Latifa Echakhch, a cura di Francesco Stocchi.

Romance nasce dall’invito rivolto dalla Fondazione Memmo a Latifa Echakhch, per la realizzazione di un progetto inedito a partire dalle suggestioni derivanti dal suo incontro con il paesaggio, le atmosfere, la storia e le vicende socio-culturali di Roma.

La mostra trae origine da un processo di avvicinamento graduale che ha portato l’artista a scoprire, interiorizzare e tradurre gli stimoli raccolti nel corso delle sue visite.

Il titolo della mostra, Romance, riassume lo spirito dell’intervento di Latifa Echakhch volto a rappresentare la stratificazione architettonica, culturale e geologica della città, in cui si intrecciano differenti periodi storici e si mescolano molteplici linguaggi e registri espressivi. L’artista è interessata a esprimere questo sentimento di trasporto, di indagine e sorpresa attraverso un’istallazione realizzata negli spazi della Fondazione Memmo (le antiche scuderie di Palazzo Ruspoli): un’opera immersiva, inedita che richiama – sia concettualmente, sia per la tecnica realizzativa – i “capricci” architettonici in materiale cementizio che ornano i giardini di fine Ottocento.

Questa mostra segna una ulteriore tappa del percorso attraverso cui la Fondazione Memmo intende promuovere l’incontro di artisti internazionali con il tessuto produttivo e artigianale della città di Roma attraverso la produzione di progetti espositivi che rivisitino materiali e tecniche tradizionali.

Latifa Echakhch _ Romance
A cura di Francesco Stocchi
Anteprima stampa: 2 maggio 2019, ore 11.30
Vernissage: 2 maggio 2019, ore 18.00
Dal 3 maggio al 27 ottobre 2019

Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 18.00 (martedì chiuso)
Ingresso libero

CONTATTI PER LA STAMPA
PCM Studio
Via Farini, 70 | 20159 Milano
www.paolamanfredi.com

08
Apr

ROMAMOR di Anne et Patrick Poirier

A Villa Medici fino al 5 maggio 2019 è possibile visitare la prima mostra monografica di Anne e Patrick Poirier in Italia, ROMAMOR. A cura di Chiara Parisi, la mostra chiude l’ambizioso programma espositivo ideata da Muriel Mayette-Holtz – direttrice dal 2015 al 2018 – che ha visto alternarsi grandi nomi dal 2017, tra cui Annette Messager, Yoko Ono e Claire Tabouret, Elizabeth Peyton e Camille Claudel, Tatiana Trouvé e Katharina Grosse, senza dimenticare i numerosi artisti internazionali che hanno partecipato alla mostra nei giardini, Ouvert la Nuit. A questi progetti si sono affiancate le due grandi mostre dedicate ai pensionnaires, al crocevia tra ricerca e produzione, Swimming is Saving e Take Me (I’m yours).

Anne e Patrick Poirier sono tra le coppie francesi più celebri della scena artistica internazionale: una simbiosi creativa che ha preso corpo proprio a Villa Medici, cinquanta anni fa. Il trascorrere del tempo, le tracce e le cicatrici del suo passaggio, la fragilità delle costruzioni umane e la potenza delle rovine, antiche come contemporanee, sono la fonte cui attinge la loro creatività, assumendo le sembianze d’una archeologia permeata di malinconia e di gioco. Anne è nata nel 1941 a Marsiglia; Patrick nel 1942 a Nantes. Il loro lavoro è caratterizzato dall’impronta di violenza lasciata dall’epoca che hanno vissuto – loro che, sin dalla più tenera infanzia, si sono confrontati con la guerra e con i suoi paesaggi devastati. Nel 1943, Anne assiste ai bombardamenti del porto di Marsiglia, e Patrick perde suo padre durante la distruzione del centro storico di Nantes.

Vincitori del Grand Prix de Rome nel 1967, dopo aver frequentato l’École des arts décoratifs di Parigi, Anne e Patrick soggiornano a Villa Medici dal 1968 al 1972 – invitati da Balthus. Ed è proprio a Villa Medici che decidono di unire la loro visione artistica, firmando congiuntamente i lavori. Anne e Patrick Poirier appartengono a quella generazione di artisti che, viaggiando e aprendosi al mondo fin dagli anni Sessanta, sviluppa una fascinazione per le città e le civiltà antiche e, in particolare, i processi della loro scomparsa. In linea con questa sensibilità: città misteriose, ricostruzioni archeologiche immaginarie, fascino delle rovine, indagine di giardini, unione di opere storiche e produzioni in situ, sono gli elementi che danno vita alla mostra ROMAMOR a Villa Medici. La loro prima grande opera comune (1969), un plastico in terracotta di Ostia Antica, nasce dal ricordo delle varie peregrinazioni nell’antico porto romano, eletta dagli artisti terreno di scavi per eccellenza. Da allora, il proposito di ritrovare le tracce di una storia remota, li condurrà spesso a esperire l’assenza, la perdita delle architetture, dei segni e dell’eredità delle civiltà.

“Passiamo dall’ombra alla luce, alternativamente, dal nero al bianco, dall’ordine al caos, dalla rovina alla costruzione utopica, dal passato al futuro, e dalla introspezione alla proiezione. La duplice identità del nostro binomio di architetti-archeologi è ciò che consente questa erranza tra universi apparentemente lontani tra loro, dei quali cerchiamo le relazioni nascoste”, secondo le parole degli artisti. A Villa Medici, la mostra si apre con una La Palissade/Scavi in corso (2019) che conduce lo spettatore nello spazio della Cisterna offrendogli la visione di una monumentale maquette di rovine, Finis Terrae (2019) illuminate da una scritta Un monde qui se fait sauter lui-même ne permet plus qu’on lui fasse le portrait (2001). Permeato da queste prime visioni, lo spettatore entra nella prima sala con la presenza magica di una scultura luminosa, Le monde à l’envers (2019), costruita a partire di un globo terrestre e costellazioni, che confluisce in un autoritratto degli artisti sotto forma di Giano Bifronte, dio dell’inizio e della fine, rivolto al futuro sempre con un occhio al passato. Un’opera ambivalente, manifesto della mostra, da leggere come contrappunto all’arazzo Palmyre (2018), sulla devastazione del sito siriano da parte dell’Isis nel 2015. Lo spettatore prosegue trovando, al centro della sala successiva, L’incendie de la grande bibliothèque (1976), opera fondamentale degli artisti, realizzata a carbone, metafora architettonica della memoria, della mente umana e del suo funzionamento. A metà tra catastrofe e utopia, tra storia e mito, quest’opera pone lo spettatore di fronte al senso di fragilità caratteristico delle opere di Anne e Patrick Poirier. Ouranopolis (1995), ovvero la “città celeste”, occupa la sala successiva. “Dall’esterno, quasi nulla si vede”: sospesa al soffitto, la scultura consente di intravedere attraverso minuscoli fori, uno spazio interno che conta quaranta sale. Anne e Patrick parlano dell’amore che nutrono per le biblioteche, intese come metafore della memoria; un’attrazione che li conduce a creare dei musei-biblioteche ideali, in questo caso un edificio ellittico che sembra poter volare verso nuovi mondi, trasportando lontano il suo carico di immagini di fronte a una possibile catastrofe imminente. Lo spazio onirico che lo spettatore intravede dagli oblò si sviluppa, lungo la grande scalinata delle antiche scuderie di Villa Medici, catapultandolo all’interno di una “irrealtà inquietante”. Uno spazio luminoso, Le songe de Jacob (2019), composto da nomi di costellazioni, scale fosforescenti, forme serpentine sospese, piume bianche sparse sulla scalinata accompagnano il passo dello spettatore, gradino dopo gradino, sino a raggiungere lo spazio successivo, di immacolato candore, dove appare Rétrovisions(2018), autoritratto tridimensionale della coppia che si riflette in uno specchio, circondata da parole al neon che parlando di utopia, illuminano lo spazio, abbagliandoci. Poco lontano, Surprise Party (1996): un mappamondo sgonfio e sbiadito poggiato su un vecchio giradischi crepitante, a sua volta posato su una vecchia valigia – altro elemento chiave del vocabolario dei Poirier – che evoca una geografia nomade, “un mondo che gira al contrario. Una terra che stride”. Tra vertigini e vestigia, lo spettatore si trova di fronte a Dépôt de mémoire et d’oubli(1989): una croce che svetta, fatta di impronte lasciate sulla carta di maschere di dei antichi. Con l’opera Lost Archetypes (1979), lo sguardo si trova davanti alla ricostruzione in scala umana di grandi opere architettoniche: una serie di quattro plastici bianchi di siti in rovina. Tra passato, presente e futuro, caduta, costruzione ed elevazione, Anne e Patrick Poirier fanno vacillare i punti di riferimento storici del pubblico romano. Nella sala successiva, i collages: disegni vegetali fissati nella cera, Journal d’Ouranopolis (1995), un tentativo di lottare contro la privazione della memoria e dell’oblio. La sensazione di vulnerabilità, che presiede alla distruzione del nostro mondo, si ritrova nelle immagini di Fragility e Ruins (1996). La mostra si estende al giardino di Villa Medici: nel Piazzale, gli artisti disegnano con delle pietre di marmo di Carrara, la forma di un cervello umano, Le Labyrinthe du Cerveau (2019), con i suoi due emisferi. Un “manifesto autobiografico bicefalo”, che raffigura la congiunzione delle loro menti, metafora di una pratica di coppia che rievoca la tematica da loro esplorata negli ultimi cinquant’anni: i meccanismi legati al passare del tempo. Le loro costruzioni sono come grandi cervelli, paesaggio che bisogna percorrere. Amano dire, a questo proposito: “L’immagine del cervello, fatto di due emisferi, è ciò che meglio può rappresentarci; rappresentare contemporaneamente l’unità e la diversità della simbiosi che siamo”. Il visitatore continua la sua passeggiata immaginando di prendere una pausa nella monumentale sedia in granito, Siège Mesopotamia (2012-15) che troneggia nel giardino. Poco lontano, nella Fontana dell’obelisco, si intravede Regard des Statues (2019): anonimi occhi in gesso ci appaiono deformati dall’acqua in cui sono immersi. L’occhio che guarda il cielo, il tempo, l’occhio del ricordo e dell’oblio, l’occhio della storia e della violenza, conduce lo spettatore all’Atelier Balthus, dove emerge un’opera mitica, realizzata proprio a Villa Medici nel 1971: stele di carta, costruite a partire dai calchi delle Erme – le figure in marmo che costellano i viali del giardino della Villa – accompagnate da libri-erbari, “quaderni che recano annotazioni personali e disegni”, e medaglioni di porcellana su cui sono raffigurate le stesse immagini funebri. La parola che dà nome alla mostra, ROMAMOR (2019), appare in neon nel portico dell’Atelier Balthus in omaggio a questa città così importante da un punto di vista artistico e umano per i due artisti.Continue Reading..

28
Mar

Italian Pavilion at the Venice Biennale. Neither Nor: The challenge to the Labyrinth

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth (Né altra Né questa: La sfida al Labirinto) is the title of the exhibition for the Italian Pavilion at the 58th Venice Biennale, curated by Milovan Farronato and featuring work by Enrico David (Ancona, 1966), Chiara Fumai (Rome, 1978–Bari, 2017) and Liliana Moro (Milan, 1961).

The subtitle of the project alludes to La sfida al labirinto (The Challenge to the Labyrinth), a seminal essay written by Italo Calvino in 1962 that has been the inspiration for Neither Nor. In this text the author proposed a cultural work open to all possible languages and that felt itself co-responsible in the construction of a world which, having lost its traditional points of reference, no longer asked to be simply represented. To visualize the intricate forms of contemporary reality, Calvino turned to the vivid metaphor of the labyrinth: an apparent maze of lines and tendencies that is in reality constructed on the basis of strict rules.

Interpreting this line of thought in an artistic context, Neither Nor—whose Italian title, Né altra Né questa, already uses the rhetorical figure of the anastrophe to disorientate—gives agency to a project of ‘challenge to the labyrinth’ that takes Calvino’s lesson on board by staging an exhibition whose layout is not linear and cannot be reduced to a set of tidy and predictable trajectories. Many generous journeys and interpretations are offered to the public, whom the exhibition entrusts with the chance to take on an active role in determining the route they will take and thereby find themselves confronted with the result of their own choices, accepting doubt and uncertainty as inescapable parts of understanding.

The exhibition is accompanied by a Public Program including talks by Enrico David, Liliana Moro and Prof. Marco Pasi, as well as the presentation of Bustrofedico (“Boustrophedon”), a new experimental short film by Italian filmmaker Anna Franceschini documenting the exhibition, produced by In Between Art Film and Gluck50, to be premiered in Venice at the end of the show. The Educational Program, promoted by the Directorate-General for Contemporary Art and Architecture and Urban Peripheries (DGAAP) of the Ministry for the Cultural Heritage and Activities, invites participants to collectively study and perform a choreography conceived by Christodoulos Panayiotou (Limassol, Cyprus, 1978), inspired by the ‘Dance of the Cranes’ which, according to the ancient Greek poet Callimachus, celebrated Theseus’s escape from the Labyrinth of Knossos. The Programs are curated by Milovan Farronato, Stella Bottai and Lavinia Filippi, and will be held in the spaces of the Italian Pavilion.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth will be accompanied by a bilingual catalogue published by Humboldt Books, with essays by Stella Bottai, Italo Calvino, Enrico David, Milovan Farronato, Lavinia Filippi, Chiara Fumai, Liliana Moro, Christodoulos Panayiotou, Emanuele Trevi.

The Italian Pavilion is realized also with the support of Gucci and FPT Industrial, main sponsors of the exhibition, and the contribution of the main donor Nicoletta Fiorucci Russo. Special thanks also go to all the other donors for their fundamental contributions to the project; we are grateful as well to the technical sponsors Gemmo, C&C-Milano and Select Aperitivo.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth
Italian Pavilion at the Venice Biennale
May 11–November 24, 2019

Italian Pavilion at the Venice Biennale
Arsenale
Venice
Italy

www.neithernor.it

Commissioned by the Ministry for Cultural Heritage and Activities
DGAAP – Directorate-General for Contemporary Art and Architecture Urban Peripheries
Commissioner: Federica Galloni, Director General DGAAP

Curated by Milovan Farronato

source: e-flux

26
Mar

La ferita della bellezza. Alberto Burri e il Grande Cretto di Gibellina

Alberto Burri, chiamato a realizzare un intervento per la ricostruzione del paese distrutto dal terremoto nella Valle del Belice del 1968, decide di intervenire sulle macerie della città di Gibellina, creando l’opera di Land Art più grande al mondo. Le ricopre di un sudario bianco, di un’enorme gettata di cemento che ingloba i resti e riveste, in parte ricalcandola, la planimetria della vecchia Gibellina. Culmine del percorso interpretativo sono le fotografie in bianco e nero di Aurelio Amendola sul Grande Cretto. Fotografo che per eccellenza ha raccolto le immagini di Burri, dei suoi lavori e dei processi creativi, Amendola ha realizzato gli scatti in due riprese, nel 2011 e nel 2018, a completamento avvenuto dell’opera (2015).

Nel percorso inoltre, il video di Petra Noordkamp – prodotto e presentato nel 2015 dal Guggenheim Museum di New York, in occasione della grande retrospettiva The Trauma of Painting –  filma in un racconto poetico e di grande sapienza tecnica l’opera di Burri e il paesaggio circostante.

Alcune opere uniche dell’artista, veri e propri capolavori, inoltre, estendono non solo ai Cretti ma anche ai Sacchi, ai Legni, ai Catrami, alle Plastiche e a una selezione di opere grafiche la lettura proposta dal celebre psicanalista.
È una ferita che è dappertutto, che trema ovunque. Una scossa, un tormento, un precipitare di fessurazioni infinite ed ingovernabili.

Come scrive Recalcati in Alberto Burri e il Grande Cretto di Gibellina, nei Legni la ferita è generata dal fuoco e dalla carbonizzazione del materiale ma, soprattutto, dal resto che sopravvive alla bruciatura. Nelle Combustioni, lo sgretolamento della materia, la manifestazione della sua umanissima friabilità, della sua più radicale vulnerabilità, viene restituita con grande equilibrio poetico e formale. È ciò che avviene anche con le Plastiche dove, ancora una volta, è sempre l’uso del fuoco a infliggere su di una materia debole ed inconsistente come la plastica, l’ustione della vita e della morte.

In occasione della mostra, realizzato dalla casa editrice Magonza un importante volume stampato su carta di pregio e di grande formato con testimonianze e ricerche inedite su Alberto Burri, la sua opera e Il Grande Cretto di Gibellina. Un nuovo testo di Massimo Recalcati raccoglie gli sviluppi ulteriori della sua ricerca, insieme a interventi di storici dell’arte quali Gianfranco Maraniello e Aldo Iori.

Organizzata una conferenza ad hoc tenuta da Massimo Recalcati, un’occasione di una riflessione ampia sull’opera di Alberto Burri e sulla mostra.

La ferita della bellezza. Alberto Burri e il Grande Cretto di Gibellina
Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese
dal 23 marzo al 9 giugno 2019

nei seguenti orari: dal 23 marzo al 31 maggio 2019
da martedì a venerdì e festivi (lunedì di Pasqua) ore 10.00 – 16.00 (ingresso consentito fino alle 15.30)
sabato e domenica ore 10.00 – 19.00 (ingresso consentito fino alle 18.30).
Giorni di chiusura: lunedì e 1 maggio

dal 1 al 9 giugno 2019
da martedì a venerdì e festivi ore 13.00 – 19.00 (ingresso consentito fino alle 18.30)
sabato e domenica ore 10.00 – 19.00 (ingresso consentito fino alle 18.30)
Giorni di chiusura: lunedì

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Progetto espositivo itinerante. Dopo la tappa romana l’esposizione riallestita da giugno 2019 ad ottobre 2019 al MAG Museo Alto Garda a Riva del Garda in collaborazione con il MART Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.

Ingresso gratuito

Tel 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
con un prestito della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma
A cura di Massimo Recalcati con il coordinamento scientifico di Alessandro Sarteanesi
Servizi museali Zètema Progetto Cultura
Prodotta da Magonza editore (www.magonzaeditore.it)
Con il patrocinio di Regione Lazio, Regione Sicilia, Comune di Gibellina, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Fondazione Orestiadi con un  prestito della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma
Con il sostegno di Broker ufficiale; PL Ferrari; A Member of the Lockton Group of Companies
15
Mar

Manifesto. Julian Rosefeldt

L’architettura del Palazzo delle Esposizioni viene ridisegnata dall’installazione Manifesto di Julian Rosefeldt articolata in 13 grandi schermi con storie diverse che, di tanto in tanto, si accordano nella potenza di una voce corale.

L’opera, apparsa per la prima volta nel 2015, rende omaggio alla tradizione toccante e alla bellezza letteraria dei manifesti artistici del Novecento, mettendo allo stesso tempo in discussione il ruolo svolto dalla figura dell’artista nella società contemporanea. Per ciascuna delle 13 proiezioni, Rosefeldt ha creato un collage di testi attingendo ai manifesti di futuristi, dadaisti, Fluxus, suprematisti, situazionisti, Dogma 95 e di altri collettivi o movimenti o alle riflessioni individuali di artisti, danzatori e registi come Umberto Boccioni, Antonio Sant’Elia, Lucio Fontana, Claes Oldenburg, Yvonne Rainer, Kazimir Malevich, André Breton, Elaine Sturtevant, Sol LeWitt, Jim Jarmusch, Guy Debord, Adrian Piper, John Cage.

Ogni stazione presenta una diversa situazione incentrata, ad eccezione del prologo, su undici diversi personaggi femminili e su uno maschile: un senzatetto, una broker, l’operaia di un impianto di incenerimento dei rifiuti, una CEO, una punk, una scienziata, l’oratrice a un funerale, una burattinaia, la madre di una famiglia conservatrice, una coreografa, una giornalista televisiva e un’insegnante, tutte figure interpretate dall’attrice australiana Cate Blanchett. È lei a infondere nuova linfa drammatica alle parole dei manifesti che risuonano in contesti inaspettati.Nel suo complesso, l’opera si presenta come un “manifesto dei manifesti”, che l’artista definisce una sorta di call to action contemporanea, nella quale il significato politico è verificato alla luce di una componente performativa. Frutto, in molti casi, di una rabbia o di una vitalità giovanili, i manifesti del Novecento non solo esprimono il desiderio dei loro autori di cambiare il mondo attraverso l’arte, ma si fanno interpreti della voce di un’intera generazione. Esplorando la potenza e l’urgenza di queste affermazioni – espresse con passione e convinzione dagli artisti di epoche diverse – Manifesto si chiede se le parole e sentimenti in esse contenute, abbiano retto la prova del tempo.

Hanno ancora un significato universale? E come sono cambiate le dinamiche tra politica, arte e vita vissuta?

Manifesto è un’opera, scritta, diretta e prodotta da Julian Rosefeldt. È stata commissionata dall’ACMI – Australian Centre for the Moving Image di Melbourne, l’Art Gallery of New South Wales di Sydney, dalla Nationalgalerie – Staatliche Museen zu Berlin e dallo Sprengel Museum di Hanover; co-prodotta da Burger Collection Hong Kong e Ruhrtriennale e realizzata grazie al generoso sostegno di Medienboard Berlin-Brandenburg e in cooperazione con Bayerischer Rundfunk.

Manifesto. Julian Rosefeldt
fino al 21 aprile 2019

Palazzo delle Esposizioni
Roma,Via Nazionale 194

Immagine in evidenza: video still frame from Manifesto@Palazzo Esposizioni, 2019_ph. amaliadilanno

11
Mar

Helen Frankenthaler. Sea Change: A Decade of Paintings, 1974–1983

Disegna sull’intera superficie ed al suo interno, colorane alcune parti e trasformala in una specie di mare.
—Helen Frankenthaler

Gagosian è lieta di presentare a Roma una mostra di dipinti di Helen Frankenthaler, in concomitanza con l’esposizione dell’artista a Palazzo Grimani durante la Biennale di Venezia 2019.

Frankenthaler è da tempo riconosciuta come una delle più grandi artiste americane del Ventesimo secolo. Figura di punta della seconda generazione di pittori astratti americani del Dopoguerra, è famosa per il suo ruolo fondamentale nella transizione dall’Espressionismo Astratto al movimento Color Field. Con la sua invenzione della tecnica soak-stain, ha ampliato le possibilità della pittura astratta, rifacendosi a volte anche al figurativo e al paesaggio in modo unico. Nell’estate del 1974 Frankenthaler affitta una casa a Shippan Point vicino a Stamford, nel Connecticut, affacciata sulle acque del Long Island Sound, segnando l’inizio di un importante periodo di cambiamento nel suo lavoro. La mostra, intitolata Sea Change, comprende dodici tele dipinte tra il 1974 e il 1983 fortemente influenzate dagli ampi panorami e dal movimento delle maree di questi nuovi paesaggi. Una delle prime tele di quegli anni, Ocean Drive West #1 (1974), si riferisce esplicitamente all’oceano con le sue bande orizzontali fluttuanti, che sembrano arretrare di fronte a una distesa blu trasparente. In Jupiter (1976) e Reflection (1977), le pennellate sono dense e verticali, e sembrano essere sul punto di dissolversi. In entrambi questi dipinti, i colori caldi della terra sono in contrasto con il blu-verde acqueo, evocando l’incontro tra terra e acqua. Le tele di grande formato Tunis II e Dream Walk Red (entrambe del 1978), esprimono un forte senso di calore, con densi strati di rosso scuro, rosa, cremisi, terra di Siena e rosso scarlatto. In questo periodo Frankenthaler lavora sul concetto di “fare di più per ogni immagine,” per creare opere allo stesso tempo più complesse e complete. In Feather (1979), Omen (1980) e Shippan Point: Twilight (1980) i colori si mescolano, si sovrappongono e si ripiegano l’uno nell’altro producendo sfumature morbide ed originali. I tocchi, i segni e i tratti di pigmento giallo di Omen preannunciano le successive tele orizzontali di dimensioni ambiziose: densi grumi e tracce di colore scuro su un fondo più chiaro in Sacrifice Decision (1981), o di colore chiaro su un fondo più scuro in Eastern Light (1982). Con Tumbleweed (1982), Frankenthaler inquadra questo approccio pittorico su un campo verde luminoso e compatto, allontanandolo dal riferimento ai valori atmosferici – di aria e acqua – per portarlo su un terreno più solido, come espresso dal titolo e dalla superficie verdeggiante. La tela più recente in mostra, Silver Express (1983), testimonia il momento in cui Frankenthaler inizia a non pensare più all’acqua e immagina invece di spostarsi su una superficie piatta e resistente, in questo caso ai margini di uno spazio più urbano come la piazza. Il solido monocromo rosso è al contempo l’opposto e il risultato del processo iniziato con il fluido monocromo blu di Ocean Drive West #1. Una “specie di mare” torna sulla terraferma. Helen Frankenthaler: Sea Change, quinta mostra di Frankenthaler presentata alla Gagosian dal 2013, è curata da John Elderfield, curatore senior presso Gagosian. La mostra sarà accompagnata da un catalogo illustrato con un saggio di Elderfield. Pittura/Panorama: Paintings by Helen Frankenthaler, 1952–1992 aprirà a Palazzo Grimani, Venezia, il 7 maggio e sarà visitabile fino al 17 novembre.

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21
Feb

Dan Flavin

La Galleria Cardi di Milano è lieta di presentare una mostra personale del leggendario artista minimalista americano Dan Flavin. La mostra è organizzata in collaborazione con l’Estate di Dan Flavin ed è accompagnata da un catalogo illustrato che include un saggio dello stimato critico d’arte italiano Germano Celant.

L’artista americano Dan Flavin (1933-1996) è riconosciuto a livello internazionale per le sue installazioni e opere scultoree realizzate esclusivamente con lampade fluorescenti disponibili in commercio. La mostra alla Cardi Gallery di Milano presenterà quattordici opere luminose dalla fine degli anni ’60 agli anni ’90 che mostrano l’evoluzione di oltre quattro decenni delle ricerche dell’artista sulle nozioni di colore, luce e spazio scultoreo. Nell’estate del 1961, mentre lavorava come guardia presso l’American Museum of Natural History di New York, Flavin iniziò a realizzare schizzi per sculture che incorporavano luci elettriche. Più tardi quell’anno, tradusse i suoi schizzi in assemblaggi, che chiamò “icone”, che accostavano le luci a costruzioni di Masonite dipinte di un colore solo. Nel 1963, rimosse completamente il supporto rettangolare e iniziò a lavorare con le sue lampade fluorescenti. Nel 1968, Flavin espanse le sue sculture ad ambienti grandi come una camera e riempì un’intera galleria di luce ultravioletta a Documenta 4, Kassel (1968). Flavin negava sempre con enfasi che le sue installazioni scultoree di luce avessero alcun tipo di dimensione trascendente, simbolica o sublime, affermando: “È quello che è e non è nient’altro”. Sosteneva che le sue opere fossero semplicemente luce fluorescente che rispondeva a uno specifico ambiente architettonico. Usando la luce come mezzo, Flavin è stato in grado di ridefinire il modo in cui percepiamo lo spazio pittorico e scultoreo.

Daniel Flavin è nato a Giamaica, New York, nel 1933. Ha studiato in seminario per un breve periodo prima di arruolarsi nell’Aeronautica degli Stati Uniti. Durante il servizio militare nel 1954-55, Flavin ha studiato arte attraverso il Programma di estensione dell’Università del Maryland in Corea. Al suo ritorno a New York nel 1956, ha brevemente frequentato la Scuola di Belle Arti Hans Hofmann e ha studiato storia dell’arte presso la New School for Social Research. Nel 1959, ha frequentato corsi di disegno e pittura presso la Columbia University; quell’anno, iniziò a creare assemblaggi e collage oltre che dipinti che indicavano il suo primo interesse per l’espressionismo astratto. Nel 1961, ha presentato la sua prima mostra personale di collage e acquerelli alla Judson Gallery di New York. Dopo questa mostra l’artista inizia a produrre quello che diventerà un corpo di lavoro singolarmente coerente e prodigioso che ha utilizzato esclusivamente lampade fluorescenti disponibili in commercio per creare installazioni di luce e colore con composizioni sistematiche. Le principali retrospettive del lavoro di Flavin sono state organizzate dalla National Gallery of Canada di Ottawa (1969), St. Louis Art Museum (1973), Kunsthalle Basel (1975) e Museum of Contemporary Art di Los Angeles (1989). Ha anche eseguito molte commissioni per lavori pubblici, tra cui l’illuminazione di numerosi binari alla Grand Central Station di New York nel 1976. Flavin è morto il 29 novembre 1996 a Riverhead, New York. Sia il Deutsche Guggenheim di Berlino nel 1999 che la Dia Foundation for the Arts nel 2004 hanno montato importanti retrospettive postume del lavoro dell’artista. Nel 1996, su invito del prete italiano Giulio Greco, Dan Flavin ha creato un progetto site-specific come elemento centrale per il restauro e il rinnovamento della chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa di Milano, progettata da Giovanni Muzio negli anni ’30.

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