Tag: amalia di Lanno

15
Mar

CANEVARI

Nascondere, cancellare, azzerare l’idea stessa dell’arte come espressione, rinunciare con estrema cura e molta pazienza alle possibilità metamorfiche del linguaggio, ostacolare il desiderio degli spettatori, spegnere lo sguardo, sospendere i giudizi: tutto questo lavoro del negativo si mostra nelle opere più recenti di paolo canevari.con la serie di monumenti alla memoria (dal 2011), una teoria di quadri neri ricavati da un campionario di geometrie che hanno a che fare con l’arte e l’architettura, la necessità di una separazione radicale del manufatto artistico dal contesto vissuto è in effetti un dato acquisito. Deposti gli strumenti e i materiali come le camere d’aria, i pneumatici, le tecniche vecchie e nuove, disegno e video, Canevari si domanda se sia possibile definire diverse regole di pensiero nei confronti dell’arte, elaborando per conto proprio una fisiognomica della cosa artistica che sottopone a innumerevoli prove. Questo è il suo modo perverso di azzerare i suggerimenti e le modalità tecniche della rappresentazione: che siano gli spettatori a determinare il senso, se ne hanno davvero intenzione e bisogno. In fondo l’arte non è che la sua enunciazione formale, una calligrafia in cui ritrovare il piacere sensuale della sottomissione a un ordine precostituito, autoproducentesi all’infinito. Cancellando dal lavoro tutti i riferimenti mondani, Canevari cerca e incontra l’essenza di un’iconografia tradizionale, benché ogni possibile figurazione anneghi nelle tele nere dei monumenti, vuoto simulacro metafisico di afflati soggettivi e intimisti. Ma nei nuovi lavori napoletani avviene un’alterazione, uno sviamento; dalle sagome maestose o minute che siano vediamo ora staccarsi superfici più leggere che fremono e s’increspano sotto la mano dell’artista. Queste superfici che emergono dal fondo in un rimando scultoreo sono in polietilene, la nera materia plastica che avvolge le balle dell’immondizia come un gigantesco sudario. Ciò che affiora è la premeditazione concettuale di un’etica in forma di ipotesi artistica: come non avvertire anche le flatulenze ribollenti della politica delle ecoballe campane e il dolore e l’impazienza di una intera comunità in balia di architetture effimere e mortifere? Nella cornice monumentale dell’arte tutte le forme di vita tornano ad agitarsi in un teatro barocco di pieghe su pieghe, linee su linee, archi su archi. Ed è solo un gioco di luci e di ombre quello che estrae molteplici immagini da un magma di percezioni indefinite, prese dalla storia dell’arte, ma non per questo meno reali dei pregiudizi fabbricati sotto i riflettori altrettanto luminosi dei media. Enfatizzando l’iconografia tradizionale di segni votati alla più radicale inespressività, in un linguaggio di pura astrazione, l’opera napoletana di canevari con un gesto poetico si riaffaccia sul mondo vissuto, che non è paesaggio famigliare e sfondo nature ma fondo oscuro, nera luccicanza di tutta la storia, di tutta l’arte, patrimonio di una moltitudine, fardello di ciascuno.

Paolo Canevari (Roma, 1963), cresciuto in una famiglia di artisti, dal bisnonno al padre, è oggi riconosciuto a livello internazionale: le sue opere fanno parte di importanti collezioni contemporanea come quelle del moma di new york, della Foundation louis vuitton pour la creation di parigi, del macro di Roma, del mart di Trento e Rovereto, del centro per l’arte contemporanea L. Pecci di Prato. Sin dalla sua prima personale nel 1991, in cui ha iniziato a usare camere d’aria e pneumatici, paolo canevari ha sviluppato un linguaggio personale teso alla rivisitazione del quotidiano e agli aspetti più intimi della memoria. La sua ricerca ha assunto negli anni una forte connotazione concettuale concentrandosi nell’impiego di simboli, icone e immagini che fanno parte della memoria collettiva, facendo uso di diverse tecniche e materiali, dall’animazione ai disegni di grande formato dai video alle installazioni. Tutto questo serve all’artista per destabilizzare ogni preconcetto ideologico stimolando il pubblico a un confronto diretto con l’opera e il suo significato.

Casamadre Arte contemporanea
Orario / hours
Lunedì – sabato / monday – saturday
10,30 – 13,30
16,30 – 20
Domenica / sunday
Chiuso / closed

Palazzo Partanna
Piazza dei martiri, 58
Napoli 80121
Tel. +39 081 193 60 591
fax: +39 081 197 088 67
info@lacasamadre.it

credit photo: Aldo Cicellyn

14
Mar

OFFICINE SAFFI. Artista in residenza: Silvia Celeste Calcagno

Officine Saffi presenta la seconda edizione di Artista in Residenza proponendosi come centro di diffusione e promozione culturale e di produzione artistica. Anche quest’anno il progetto di Artista in Residenza nasce dalla collaborazione con il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza. Verranno ospitati gli artisti vincitori della 59ma edizione del Premio Faenza, ed in particolare Silvia Celeste Calcagno, vincitrice per la sezione over 40, Helene Kirchmair e Thomas Stollar vincitori ex aequo per la sezione under 40 e Nicholas Lees a cui è stato assegnato il Premio Cersaie.

Artista in Residenza si svolge negli spazi delle Officine Saffi, che comprendono la galleria d’arte, il Laboratorio, l’alloggio della residenza. È un’opportunità di scambio di saperi che coinvolge gli artisti ospiti e l’intera comunità. L’esito di questa osmosi è il progetto finale che verrà esposto alla fine del programma di residenze presso gli spazi della galleria Officine Saffi, nella mostra dedicata. Attraverso la residenza, l’artista ospite ha l’opportunità di entrare a far parte dell’ambiente circostante e della cultura locale, interpretando e incorporando questi nuovi stimoli attraverso il medium di elezione di Officine Saffi, la ceramica.

Il primo degli artisti a dare il via al programma è Silvia Celeste Calcagno che sarà presente alle Officine Saffi fino a metà marzo. Innocent, L’ultima cena è il titolo del progetto che la Calcagno ha scelto di sviluppare durante la sua permanenza a Milano.

“L’installazione Innocent è un lavoro concettuale, la sua incubazione coincide con l’invito in residenza. La notizia divide in due momenti l’esistenza dell’artista: il prima e il dopo. L’esistenza prima di ricevere l’invito e l’esistenza successiva alla notizia. Per questo, il concetto stesso di Residenza d’artista viene stravolto: l’opera porta in sé non solo l’esperienza vissuta in loco, ma anche le fasi antecedenti, che sono parte stessa del progetto. Il concept di Innocent è, ancora una volta, una registrazione meticolosa, puntuale, addirittura esasperata delle emozioni e dello stato d’essere dell’artista. Quando l’artista riceve l’annuncio, si trova nella propria casa, l’appartamento che è stato lo sfondo di numerose opere. Le cose, però, sono cambiate e l’ambiente, percepito un tempo come luogo ospitale, è divenuto estraneo. Il luogo non “è” in se stesso, ma esiste in base alle emozioni e allo sguardo dell’artista, il luogo “è” attraverso l’occhio di chi osserva. Il dolore per il mutamento di un ambiente violato, un tempo amato, viene sintetizzato attraverso un oggetto simbolo della vita quotidiana: il freezer. Una serie di constatazioni fotografiche, tradotte in ceramica secondo la tecnica sperimentale della fotoceramica ad alte temperature, inquadra l’interno di un freezer vuoto, le cui pareti sono divorate dal ghiaccio. Un’immagine, ripetuta in modo costante, attraverso scatti differenti l’uno dall’altro, pur se per particolari impercettibili, che simboleggia un dolore glaciale. I sentimenti lasciano posto a una morsa: un freezer trascurato, che nessuno sbrina da tempo; una casa vuota. Sino a un richiamo macabro: le celle dell’obitorio. La vita dell’artista è sospesa, come i fiori incastonati nel ghiaccio o nella resina. Tanto belli e integri, quando pietrificati. Il desiderio dell’arte, prima ancora dell’arte stessa, restituisce la vita. Un tepore salvifico può sciogliere il ghiaccio. Accade, così, un nuovo passaggio puramente concettuale: il corpo rinasce e diviene sacrificio nel senso etimologico del termine: “si fa sacro”. Al punto da offrirsi agli altri come un dono eucaristico. Allo stesso modo in cui le uova, che riportavano l’impronta di Piero Manzoni, venivano distribuite dall’artista, nelle sue performance, perché il pubblico se ne cibasse, mangiando la carne di Manzoni. La seconda fase di “Innocent” è la narrazione del sacrificio. È una sorta di “Ultima cena” laica quella narrata, dove la rinascita passa dal dono del proprio corpo: fotografie dedicate a parti intime del corpo – pelle, seni, capezzoli, pube, cosce – sono donate agli altri. Sono il risveglio della carne, divenuta sacra nella benedizione dell’arte, e offerta in un dono-sacrificio agli altri. Il soggiorno in Residenza costituisce la terza e ultima fase dell’installazione: la Resurrezione. Dopo la morte apparente del freezer, l’offerta eucaristica di sé, l’artista registra, ora, il ritorno alla vita. Il riappropriarsi del proprio corpo e dell’anima, alla ricerca di una unità fisico-spirituale, leit motiv del percorso artistico negli anni. Il “genius loci” – la vita in Residenza- è il momento concettuale dell’elaborazione di questo terzo momento. La constatazione del ritorno alla vita. Un video, un audio, forse nuove immagini.”Continue Reading..

12
Mar

Stanislao Di Giugno. Deserted corners, collapsing thoughts

La galleria Tiziana Di Caro è felice di inaugurare Deserted corners, collapsing thoughts terza mostra nei suoi spazi di Stanislao Di Giugno (Roma, 1969), sabato 12 marzo 2016 alle ore 19:00, in piazzetta Nilo, 7 a Napoli. Il progetto espositivo include opere realizzate nel 2016, e si distingue formalmente da quanto presentato alle mostre precedenti (al 2008 risale una doppia personale con Alessandro Piangiamore presso gli spazi salernitani della galleria, mentre a dicembre 2009 si inaugurò Landescape sua esclusiva seconda personale).
La tendenza ad alterare la logica di senso è l’elemento che da sempre caratterizza il lavoro di Di Giugno che negli anni ha avuto un percorso trasversale, passando per la pittura figurativa, il collage, l’installazione spesso di matrice sonora, la scultura, la pittura astratta. Nella produzione dal 2014 ad oggi, nonostante l’autonomia totale del medium pittorico, Di Giugno sintetizza per intero il percorso effettuato dalle prime esperienze artistiche sino ad oggi, mantenendo una matrice formale sempre riconoscibile. L’artista è interessato ad esplorare le peculiarità fisiche dei materiali, prestando attenzione a caratteristiche quali il volume, la forma e la dimensione. Ne derivano forme astratte e geometriche che informano il suo immaginario, per essere poi utilizzate in maniera ripetitiva. Esse sono estrapolate da forme più complesse che l’artista estrae da varie fonti, in primis dagli oggetti di design, da parti di automobili, frammenti di billboard o pubblicità di magazine, che egli raccoglie ossessivamente come relitti di un paesaggio urbano in cui trascorre la sua quotidianità. È da tutte queste suggestioni che nasce la seduzione per le forme e per i gradienti di colore. Nei collage, nei lavori su carta così come nei dipinti Stanislao Di Giugno cerca di eludere il confine tra bidimensionalità e tridimensionalità, giocando sulle infinite possibilità e relazioni che si creano dalla giustapposizione di piani e tonalità. I suoi lavori sono dipinti per velature dove i primi strati vengono sostituiti quasi completamente da quelli che seguono, in perpetui ripensamenti che annullano il lavoro svolto, come in un costante sentimento di insoddisfazione. Alle volte, però, alcune porzioni resistono e nella composizione finale appaiono come rotture, come strappi di pagine sovrapposte in un collage o come impressione retinica di immagini scorse velocemente. Un altro elemento rintracciabile nella pittura di Di Giugno è la tensione tra il rigore formale, cioè il tentativo di semplificare la composizione attraverso geometrie e colori, e la gestualità di matrice più espressionista in cui la pennellata risulta visibile e incontrollata.Continue Reading..

11
Mar

Stephen Shore. Retrospective

“I wanted to make pictures that felt natural, that felt like seeing, that didn’t feel like taking something in the world and making a piece of art out of it.” Stephen Shore

What does it mean to explore the essence of things through photography? Is it possible to show what holds the world together internally—not just its surface appearance? The immaterial is impossible to document directly. Cultural developments and contexts are most clearly manifest in everyday situations, banal objects, unremarkable landscapes, and faceless places. Stephen Shore’s photographic series record, preserve, and reflect on those traces of human life that are normally passed over, considered unworthy of representation. A chronicler of the unspectacular, Shore uncovers the structures  and subtle inner workings of our Western culture. In his work, the act of photographing becomes an attempt to examine the self and the external world, to arrive at deeper understanding through observation. At the same time, his work is an attempt to understand and find new ways of thinking about the medium of photography. Stephen Shore’s conceptual approach and his ongoing experimentation—spanning a range of genres, themes, and techniques—establish him as a pioneer and one of the most important visionaries in photography today; an artist who is continually reinventing himself. Due to the diversity of his different series and projects during his career, at first glance Stephen Shore’s oeuvre seems to fit easily into established documentary and narrative photographic traditions. Yet for Shore, the “decisive moment” is irrelevant, and chance plays only a minor role. He uses these categories and visual languages instead as stylistic devices to give visual expression to his conceptual ideas about reality. Bound only by his own constantly evolving rules, he frees himself from widely accepted conventions of photographic medium and continually explores and redefines its limitations and possibilities. For this reason, Stephen Shore is an important and ever-present point of reference for artists working today, and one of only a very few bridging figures who defy easy categorization solely on the basis of either visual results or working methods.  His system of references reveals the strength of his body of work as a mixture of documentary and artistic reflection. The exhibition includes over 300 pictures–some of them never published. It was organized by Fundación MAPFRE in collaboration with C/O BERLIN, and was curated by Marta Dahó and Felix Hoffmann. C/O Berlin will be the only place of Stephen Shore’s retrospective in Germany. A catalog accompanying the exhibition has been published by Kehrer Verlag. This first retrospective of Stephen Shore’s work unfolds chronologically, shedding light on the three most significant aspects of Stephen Shore’s oeuvre as well as his unique contribution to the culture of photography. The exhibition also presents some of the most important interpretations that his work has inspired over the last four decades.

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11
Mar

Studio Azzurro. Immagini sensibili

Il Comune di Milano rende omaggio a Studio Azzurro con una mostra antologica e “prospettiva”. Nelle prestigiose sale di Palazzo Reale (Appartamenti del Principe, Sala delle 4 Colonne, Sala delle 8 Colonne, Sala delle Cariatidi) si susseguono videoambienti, videoinstallazioni interattive (ambienti sensibili) e sale di videodocumentazione del vasto corpus di opere realizzate dal 1982 a oggi.

Il percorso espositivo prende inizio dalla riproposizione de IL NUOTATORE (va troppo spesso a Heidelberg) e si conclude con una nuova opera dedicata alle storie della Milano nascosta e ideata per la Sala delle Cariatidi in omaggio al grande film MIRACOLO A MILANO.L’occasione della mostra permette a Studio Azzurro di attivare la sua vocazione a fare rete coinvolgendo altri spazi della città metropolitana: anzitutto lo Spazio MIL come primo esperimento sul campo di Stazione Creativa; l’Anteo spazioCinema per la rassegna di film e video inediti; il CRT Milano; la sede dello studio alla Fabbrica del Vapore, dove si sono formati i giovani che hanno poi proseguito autonomamente la propria attività artistica.La mostra è parte del palinsesto RITORNI AL FUTURO
http://www.ritornialfuturo.it/
In mostra trentacinque anni di lavoro di Studio Azzurro, riconosciuto sia a livello nazionale che internazionale e orientato al dialogo tra spettatore e spazio che lo ospita, in una lunga ricerca artistica stimolata dalle nuove tecnologie. Alla riproposizione delle installazioni più significative che pongono come protagonista lo spettatore, si aggiunge una nuova installazione dedicata a Milano.
Studio Azzurro. Immagini sensibili
Palazzo Reale di Milano
a cura di Studio Azzurro
Dal 09 aprile al 04 settembre 2016enti promotori:
Comune di Milano Cultura
Palazzo Reale
Studio Azzurro ProduzioniT. +39 02 88445181
c.mostre@comune.milano.it

Immagine: Studio Azzurro, La Camera Astratta, opera videoteatrale, Salzmannfabrik, Documenta 8, Kassel, 1987 (part.)

report by amaliadilanno

10
Mar

Debora Hirsch | donotclickthru

18 marzo – 2 giugno 2016
Inaugurazione 17 marzo, ore 18.30
Galleria PACK – SPAZIO 22
Viale Sabotino, 22 – Milano

Galleria Pack di Milano è lieta di annunciare la propria collaborazione con l’artista brasiliana, ormai di stanza a Milano, Debora Hirsch. La mostra, intitolata donotclickthru inaugurerà il 17 Marzo e continuerà fino al 2 Giugno. La produzione artistica di Debora Hirsch può essere definita sia concettuale che ‘assimilativa’: l’artista raccoglie, seleziona e fonde stimoli visuali derivanti sia da immagini che da testi. Le immagini, provenienti da una ampia varietà di differenti media, sono utilizzate in una prospettiva personale, ricreate e riproposte con il mezzo del disegno, del dipinto, del video o con altre variegate forme di espressione artistica scelte dall’artista.
I suoi lavori presenti in mostra presso Galleria PACK non hanno un carattere politico o emotivo. Le opere proposte affrontano il tema dell’influsso sulla cultura e sulla società contemporanea esercitato dai mezzi di comunicazione e dalle tecnologie della contemporaneità. Uno dei suoi disegni pone apertamente il quesito Se tutto è al di fuori di noi, che cosa ci resta dentro? “If everything is out there, what is left within you?.” Hirsch indaga sulla condizione umana, le vulnerabilità e le contraddizioni connaturate nell’uomo, senza lasciare mai lo spazio a pregiudizi, assiomi e cliché. L’uso della forma imperativa donotclickthru, con cui è intitolata la personale, è utilizzato anche come url del sito dedicato a questo lavoro: www.donotclickthru.com. In ultima analisi, lo scopo del sito web è quello di ottenere ‘zero clicks’, ‘nessuna navigazione’. Il lavoro presenta una successione di immagini, disegni e testi, che simulano il formato tipico della comunicazione web nello stile. Il sito può essere inteso come una trappola per gli esseri umani i quali, ridotti alla condizione di topi, inseguono e sono attratti come da un’esca di formaggio invisibile, immateriale e assolutamente inodore. Lo spettatore è chiamato a confrontarsi con la dimensione effimera di Internet, che altro non è se non una trappola in grado di trasformare una possibilità in una sicurezza assoluta, un dubbio in una certezza, un gruppo in minoranza in una maggioranza di individui. Tutto può essere trasformato in una lista, e non importa il quanto irrilevante o fittizia. La nostra curiosità di osservatori è attivata, innescata e ci sentiamo in dovere di colmare il divario di conoscenza. Cliccare sul mouse incarna il prototipo perfetto di un perfetto piacere: e’ squisito e lascia insoddisfatti. Più si è delusi dal contenuto materiale, più insoddisfatte e disattese risultano le nostre aspettative, maggiormente ci si ritroverà ad osservare nuovamente lo stesso contenuto: quello che circola, ritorna.Continue Reading..

07
Mar

PAOLO VENTURA. La Città Infinita

PAOLO VENTURA
La Città Infinita

10 marzo – 5 maggio 2016
Inaugurazione giovedì 10 marzo dalle 18.00 alle 20.00
Sarà presente l’artista

Giovedì 10 marzo Photographica FineArt di Lugano inaugura una nuova esposizione dedicata al “mondo magico” di Paolo Ventura.

La visione fantastica anima il lavoro di Paolo Ventura. Figlio di un famoso novellista per bambini, appena ha potuto emanciparsi a livello artistico, ha abituato la sua mente a volare tra fantasie irreali creando mondi virtuali, a lui paralleli, dove regnano enigmi, intrighi, sentimenti, tragedie e stravaganze. Luoghi gestiti da personaggi – fiabeschi come le sue scenografie – sempre plasmati nella fanciullesca visione di una persona che vuole mantenere uno stretto contatto con il mondo pre-adolescenziale, consapevole che questa è la porta della sua anima artistica.
Il “mondo di Paolo” è sempre ripreso dalla sua fotocamera con angolature differenti da quelle razionali perché è un mondo illogico e inesistente nel quale l’artista stesso ne è addirittura protagonista.
Nel suo ultimo progetto artistico, La Città infinita, Paolo Ventura si evolve ancora una volta e crea la sua città realizzandola con pezzi di scenografie e di edifici che poi fotografa e monta come dei collages. Il progetto, che prende ispirazione dal secondo futurismo e dalla “Pittura murale” di Sironi, presenta paesaggi urbani solitari e onirici punteggiati da figure umane, sempre impersonate da Ventura stesso. Sebbene le scene composte differiscano le une dalle altre, la linea dell’orizzonte rimane sempre la stessa, creando in questo modo un infinito paesaggio urbano, La Città Infinita.
Oltre a quest’ultimo lavoro di Ventura, in mostra verranno esposti alcuni lavori precedenti di War Souvenir (2006), Winter Stories (2008) dove i personaggi sono delle marionette vestitie secondo le tematiche del soggetto e le sue più recenti Short Stories, brevi racconti impersonati da Ventura stesso, sua moglie Kim e suo figlio Primo. Oltre alle opere esposte, una sala sarà dedicata alle sue scenografie costruite per la realizzazione delle opere esposte.

Orari galleria:
dal martedì al venerdì dalle 9.00 alle 12.30 e dalle 14.00 alle 18.00.
Sabato su appuntamento.

Photographica FineArt Gallery
Via Cantonale 9 – 6900 Lugano – Switzerland – mail@photographicafineart.com

03
Mar

Hiroshi Sugimoto: Black Box

Curated by Philip Larratt-Smith

From February 19 through May 8, 2016

“I feel like a man from the stone age. I try to go back to the original roots of our mind, of our conscience, that we may have lost thousands of years ago, or maybe just fifty or a hundred years ago.” Hiroshi Sugimoto

From February 19, 2016, you can visit the exhibition at the Casa Garriga i Nogués in Barcelona, dedicated to the Japanese photographer, Hiroshi Sugimoto. The exhibition, under the title of Hiroshi Sugimoto. Black Box provides a journey through some of his most famous series and invites us to learn about the work that the artist is working on right now. This multidisciplinary artist, based in New York since the ’70s, works with sculptures, architecture, installation and photography, and is considered to be one of the most important international artists in the last field. The exhibition includes 39 large prints, showing the last forty years of the artist’s work.

Hiroshi Sugimoto has explored ideas of time, empiricism and metaphysics through a surreal and formalistic approach since the 1970s. A self-described “habitual self-interlocutor,” Sugimoto uses the camera as a bridge between abstract questions and the quiet, comical nature of modern everyday life. Whether formally photographing Madame Tussauds wax figures and the wildlife scenes at the American Museum of Natural History, or opening the lens of his eight-by-ten camera to capture a two-hour-long film in one exposure, he explores themes of consumerism, narrative and existence in rich and evocative imagery. This new project presents a survey of Sugimoto’s iconic work, from his calm seascapes to his more recent exploration of lightning fields and photogenic drawing. Created in conjunction with an upcoming exhibition at Fundación Mapfre in Spain, the survey includes an introduction and essay by writer and curator Philip Larratt-Smith, an interview with Sugimoto and text by the prominent Brazilian artist Iran do Espírito Santo.Continue Reading..

03
Mar

Alex Urso. Impossible Nature

a cura di Francesca Pergreffi

Spazio Meme, via Giordano Bruno 4, Carpi (MO)
12 marzo – 29 maggio 2016
Inaugurazione 12 marzo 2016, ore 18.30

Alex Urso è da sempre attratto dagli oggetti, dalla potenza sentimentale che emanano. Le “cose” sono, per l’artista, dei conduttori attivi di poesia capaci di raccontare infinite storie. Raccolti negli angoli più disparati della città, questi elementi -cianfrusaglie apparentemente prive di valore- si presentano agli occhi di Urso come entità autonome pulsanti e seducenti, che aderiscono totalmente al mondo e ne riflettono il senso. Sottratti al reale, questi oggetti vengono inseriti dall’artista all’interno di contesti nuovi, con l’obiettivo di dar vita a inattese narrazioni.

La serie di lavori esposta allo Spazio Meme raccoglie, per la prima volta in Italia, venti opere provenienti dalla serie di assemblaggi Impossible Nature, che ha occupato gli ultimi due anni di ricerca dell’artista. La serie consiste in uno studio sulle dinamiche che sempre sono intercorse tra arte e natura: nati originariamente come omaggio a Joseph Cornell, pioniere dell’assemblaggio ed esponente di riferimento del surrealismo americano, i lavori, a partire dal 2014, si sono sviluppati sempre più come una riflessione in progress sulle relazioni tra mondo naturale e mondo fittizio delle immagini. Impossible Nature è diventato, in questo modo, un compendio sull’ossessione e sul desiderio, da parte dell’arte, di ricercare le forme e le armonie estetiche della natura, di riprodurle e, in certi casi, di volerle conservare catturandone invano la bellezza.

Gli assemblaggi in mostra sono composti, singolarmente, da collage di figure di volatili ritagliate da vecchi libri di illustrazione sul mondo naturale, combinate ad elementi sottratti al reale: carta da parati ornamentale, scatole di alluminio e boxes di ogni tipo vengono trasportate in un contesto poetico in cui elementi naturali e scarti artificiali convivono. Elaborati con minuzia tecnica e profondo equilibrio compositivo, ognuno di questi teatrini ammalia e si lascia osservare, seducendo l’osservatore e invitandolo a scorgersi dentro per cercare un contatto con l’opera.

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Alex Urso (n. 1987) lavora prevalentemente con la tecnica del collage e dell’assemblaggio. Laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Macerata. Diplomato in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a mostre personali e collettive in gallerie e spazi pubblici tra Italia e Polonia. Attualmente vive e lavora a Varsavia, dove porta avanti la sua attività di artista e curatore indipendente, scrivendo di arte e cultura contemporanea per riviste di settore.

Orari di apertura: sabato e domenica 10.00-13.00; 16.00-20.00;
durante la settimana su appuntamento; spaziomeme@gmail.com

Immagine: Non toccare desiderio, 36 x 23 x 15 cm (2015) – dettaglio

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03
Mar

Lorenzo Scotto di Luzio. Basteln

Basteln (fare bricolage) si compone di una nuova serie di lavori di Lorenzo Scotto di Luzio che si presentano come una cronaca della realtà quotidiana, e di alcune delle soggettività che la popolano. Evidenziando la necessità di riformulare i paradigmi di riferimento più tradizionali, l’artista tuttavia fa sì che sia l’incontro tra lo spettatore e le opere –e gli eventi e le soggettività di cui si fanno manifestazione- a completare questo mosaico del nostro quotidiano.

Basteln rappresenta anche l’inizio di un nuovo ciclo espositivo per la galleria all’interno del nuovo spazio in Trastevere. Con uno stile sicuramente colto, sempre acuto e beffardo, l’artista inscena la parodia di una realtà che si mostra durissima, illustrando le paranoie, la paura del fallimento e le pulsioni volitive che la pervadono. In un momento storico connotato da una perversa compulsione verso il possesso, e da una narcisistica ansia di autorappresentazione, Lorenzo Scotto di Luzio prende invece ispirazione da un libro per bambini composto da facce da colorare e da ornare con vari adesivi. Ed è così che i suoi ritratti finiscono per assumere le forme di un pomodoro, di un limone, di bambina sorridente, di un ovale contornato da una collana di perle, e di un volto astratto nel suo lento decadere. Questi volti non richiedono malinconica contemplazione, né compassione. La loro irriverenza e la goffaggine delle loro forme tradiscono l’estetizzazione di quell’ansia e di quel desiderio di cui si fanno simbolo. Ed è proprio questa procedura anti-estetizzante, riduttiva e palesemente non-professionale che acuisce la forza corrosiva delle tensioni che animano i soggetti ritratti. Le stesse tensioni drammatiche e assolutamente non necessarie animano i movimenti –reali o presunti- delle sculture che accompagnano il visitatore lungo le sale della galleria. Una scultura in particolare, esalta la dimensione temporale –e fortemente contemporanea- di questa parodia del dramma. Composta da barre in alluminio e palloni da basket, Stick Man Kills Stick Man (2015) raffigura la procedura di un’esecuzione, come quelle di cui sentiamo parlare quotidianamente, stilizzando la frustrazione implorante del condannato a morte che si inchina di fronte alla ‘ferrea’ impassibilità del boia. Le loro pose ricordano la naïveté di certi monumenti pubblici dell’immediato dopoguerra italiano: quei monumenti che ancora oggi abitano le piazze delle città della penisola, e la cui ostentata formalità tradisce il peso ideologico del contenuto.Continue Reading..