Tag: amalia di Lanno

06
Nov

Chiharu Shiota. Direction

Chiharu Shiota is internationally renowned for her intricate and spectacular thread constructions. In her works Chiharu Shiota seeks to awaken feelings and memories in the public. In Bergen, her new work “Direction” will fill a large exhibition hall at KODE and completely encompass the visitors. Her complex thread constructions have been compared with “drawing in the air”, and frequently include everyday objects. Shiota has also employed photography and video in several of her installations. Her installation in Bergen is accompanied by selected drawings, sculpture, photography and film.

Boats from Western Norway
At KODE the artist will incorporate old boats from Western Norway in her work. These boats were once an everyday means of transportation along the coast outside of Bergen, and the title incorporates a reference to the act of travelling. At the same time Shiota touches upon navigating in a broader perspective: “I’ve been concentrating on the distance we cover in our lives, and the journey we take that has an unclear destination. We are heading in a certain direction but don’t know exactly where”, says the artist. With a background in painting and performance, Shiota has continued to develop her interest in the body and the bodily gesture in her installations. The visual impression is both fragile and massive, and the body’s response upon entering into the work is an important part of the artist’s objective.

Chiharu Shiota (b. 1972) was educated in Japan and Germany. In Germany she studied under Marina Abramović and Rebecca Horn, among others. Shiota has lived and worked in Berlin since 1996. Shiota has exhibited in museums around the world, such as MoMA PS1, New York (2003), La Maison Rouge, Paris (2011) and Kunstsammlung Nordrheinwestfalen, K21, Düsseldorf (2015). In 2015 she represented  Japan in the Venice Biennale, and gained considerable acclaim for her installation “The Key in the Hand”.

KODE is one of the largest art museums in Scandinavia, situated in Bergen, Norway, with collections spanning from the Renaissance to Contemporary Art. KODE holds more than 43,000 works, including world class collections of Edvard Munch and Nikolai Astrup, as well as several composer homes including Edvard Grieg’s Troldhaugen.Chiharu Shiota. Direction

Chiharu Shiota. Direction
October 27, 2017–April 1, 2018
KODE Art Museums and Composer Homes
Rasmus Meyers allé 9
5015 Bergen
Norway
T +47 53 00 97 04
post@kodebergen.no

Image: Chiharu Shiota, Earth and Blood, 2014

01
Nov

Viviane Sassen. SHE

La Fondazione Sozzani, presenta “SHE” una mostra delle fotografie di Viviane Sassen.
Nata ad Amsterdam nel 1972, da più di vent’anni esplora con il suo lavoro ambiti differenti nella moda, nel ritratto, nelle arti visive, costruendo un suo personale codice visivo. Pervase da atmosfere misteriose, le fotografie di Viviane Sassen sono spesso segnate da ombre lunghe, silhouettes e contrasti netti. In bilico tra realtà e finzione, sembrano suggerire dimensioni stranianti, impenetrabili, ma che nascono dalla vita quotidiana. Alcuni lavori rivelano un richiamo all’inconscio e ricordano il surrealismo, con riferimenti al disordine e al disorientamento: come nelle posizioni anomale dei modelli che spesso richiamano la danza o la performance.

Viviane Sassen ha studiato Fashion Design a Utrecht (presso l’HKU) e fotografia al Dutch Art Institute di Atelier Arnhem, ma molti dei suoi colori surreali provengono dall’Africa, dove ha vissuto per tre anni da bambina, al seguito del padre medico.  “I miei ricordi dal Kenya erano molto visivi”, racconta Viviane “Ero una bimba sensibile con un’intensa immaginazione e captavo tutto quello che accadeva intorno a me”. Nel corso degli anni molte delle sue immagini più enigmatiche si sono slegate dal luogo fisici in cui sono state realizzate e viaggiano piuttosto sul confine tra veglia e sogno. Presente nel 2013 alla 55° Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni, Viviane Sassen ha vinto numerosi premi e riconoscimenti tra cui l’Infinity Award dell’ICP di New York nel 2011 e il premio nazionale olandese Prix de Rome nel 2007. Per la mostra Umbra è stata candidata al Deutsche Börse Photography Prize nel 2015. Sassen ha intrapreso una carriera internazionale nella fotografia della moda, ma appartiene a una generazione di artisti-fotografi che non fanno una distinzione netta tra ricerca personale o lavoro commerciale e redazionale. Per lei la fotografia è quasi sempre personale. Le sue immagini sono state pubblicate in riviste come Purple, i-D, Dazed and Confused, Vogue e The New York Times Magazine, e in molte campagne pubblicitarie per Adidas, Stella McCartney, Miu Miu, Missoni, Bottega Veneta e Louis Vuitton. Nel 2009 ha esposto allo spazio Forma di Milano e nel 2008 al Museo FOAM di Amsterdam. Nel 2012 una grande retrospettiva del suo lavoro ha avuto luogo all’Huis Marseille Museum for Photography di Amsterdam, ai Rencontres d’Arles Festival, alla Scottish National Portrait Gallery di Edimburgo, al Savannah College of Art and Design in Georgia, USA; al Fotografie Forum di Francoforte, al Fotomuseum Winterthur, Svizzera. Con il suo lavoro “Umbra” è quest’anno presente al Museum of Contemporary Photography di Chicago e alla Deichtorhallen di Amburgo. Importanti mostre collettive nel 2011 sono state “New Photography” al Museum of Modern Art, New York; “No Fashion, Please!” alla Vienna Kunsthalle; e “Figure and Ground” presso il Museum of Contemporary Canadian Art di Toronto, parte del Contact Photography Festival.

La Fondazione Sozzani è un’istituzione culturale costituita a Milano da Carla Sozzani nel 2016 per la promozione della fotografia, della cultura, della moda e delle arti. La Fondazione ha assunto il patronato della Galleria Carla Sozzani e intende proseguire il percorso dell’importante funzione pubblica che la galleria svolge da 27 anni.

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24
Ott

Yamamoto Masao | Ettore Frani
. La misura dell’inespresso 沈黙の尺度

“Ci sono colori che rendono ciechi gli occhi degli uomini” Lao Tse
La Galleria Paraventi Giapponesi – Galleria Nobili avvia la sua stagione espositiva con la mostra La misura dell’inespresso 沈黙の尺度, occasione in cui il lavoro del celebre fotografo giapponese Yamamoto Masao (Aichi, 1957) incontra la suggestiva pittura dell’artista italiano Ettore Frani (Termoli, 1978). La mostra nasce per l’assegnazione a Frani di uno Special Project in occasione del Premio Arteam Cup 2016, di cui la galleria è stata partner, secondo l’espressa volontà dei galleristi di avvicinare, nel rispetto delle ricerche da loro condotte nei propri programmi espositivi, due universi artistici possibilmente commensurabili, come quelli dell’arte occidentale e orientale, giapponese nello specifico mandato della galleria stessa.

Yamamoto Masao presenta sei fotografie dalla magnifica serie Shizuka, esposta in varie occasioni in diverse parti del mondo a partire dal 2012; Frani propone una serie di oli su tavola laccata, di varia dimensione, che, pur rispettando la matrice del proprio linguaggio pittorico, ha appositamente concepita per l’incontro con la fotografia del maestro giapponese.
Inedito appare dunque il contatto tra due artisti che vivono presupposti culturali e abitano dimore dell’essere (parafrasando Heidegger), a partire dall’idioma, dalla tecnica fino alla metodologia espressiva, molto differenti tra loro; sebbene, infatti, l’origine natia dei due tradisca un’adesione culturale a valori e visioni evidentemente diversi, l’accostamento non appare improprio, anzi risulta altresì avvalorato dal desiderio di uscire dalle abituali convenzioni e logiche espositive e, senza vincolarsi a criteri di giudizio più rigidi e schematici, di stabilire un colloquio fecondo e inusuale tra due artisti che, incontrandosi per la prima volta in questa occasione, mostrano una sorprendente affinità nonostante la distanza, condividendo approcci, fascinazioni e suggestioni visive frutto di una silente, ma profonda connessione nella percezione e resa della realtà sensibile.

A prescindere infatti dall’utilizzo di un medium differente – per Masao la fotografia (intesa nella sua accezione più tradizionale come processo artigianale che prevede lo sviluppo di ogni singolo fotogramma) e per Frani la pittura ad olio – è possibile ravvisare in entrambi una peculiare atmosfera poetica di sospensione del tempo e dello spazio raggiunta attraverso l’evidente assenza di colore e attraverso l’equilibrio precario tra pieni e vuoti. La scelta di operare nel registro del bianco e nero, seppur data quasi per assodata in certa fotografia artistica, non è scontata per Masao e a maggior ragione per Frani che si esprime attraverso un genere di tradizione secolare come quello pittorico. In Masao questa attitudine risponde a una sensibilità tipicamente orientale che ha fondamenta e specifiche radici di riferimento; l’a-cromatismo così come l’a-simmetria non vengono, infatti, percepiti negativamente come assenza di colore o di squilibrio, al contrario, come espedienti espressivi più efficaci e risonanti nella trasmissione dell’incanto artistico. Analogamente per Frani l’avvalersi della monocromia nel processo creativo ridefinisce il consueto rapporto tra pittura, fotografia, istante visivo e fruitore, rinvigorendo e conferendo nuova capacità espressiva al mezzo pittorico.

Il sentore di vago, l’inespresso, il senso di mistero inspiegabile presente nei lavori, sono note percepite, ma non spiegabili razionalmente: esse rimandano alle infinite sfumature del possibile che abitano la Natura, evocando un ideale di bellezza sobrio e pacato, percepibile solo nel raccoglimento della contemplazione, in quello stato emotivo che i giapponesi chiamano seijuku, ovvero di profonda calma nel mezzo dell’attività.
Più nello specifico sembra che Masao e Frani partano da antipodi geografici per incontrarsi a metà del cammino: le tavole dell’artista italiano colgono appieno la contingenza insita nel tempo quotidiano sotto cui risiede l’eterna ciclicità che è legge fondamentale della Natura. Opere come Via Lattea o Ideogramma esemplificano visivamente ciò che è in continuo cambiamento nonostante, in apparenza, sembri rimanere immutabile e di cui l’ambiente conserva sempre traccia tangibile; il pensiero corre in questo caso alle linee che circoscrivono un significato attraverso i segni severi dei pittogrammi orientali a cui Frani sembra, implicitamente, far riferimento. In modo analogo – e opposto – il fotografo giapponese definisce volumetricamente la fissità di spazi in cui porre quei ritrovamenti fortuiti che, raccolti durante le sue passeggiate mattutine nei boschi e risparmiati al consueto, sono resi eterni attraverso un uso magistrale delle luci e delle sensazioni da esse evocate.

Il silenzio che affiora è ottenuto da entrambi grazie ai vuoti abbacinanti dei bianchi, all’infinita gamma di semitoni grigi in tensione lirica con gli sfondi cupi da cui, i due artisti, plasmando lo spazio, fanno emergere l’essere sottraendolo all’oblio dell’ombra. Non a caso risulta secondaria per loro la ricerca di tematiche predominanti, poiché l’attore assoluto non è tanto il soggetto rappresentato, quanto l’inconsistenza del tempo di una realtà che non permane.Continue Reading..

23
Ott

Bill Viola alla Cripta del Santo Sepolcro

In uno dei luoghi più suggestivi della città, tre video installazioni del grande artista Americano esposte nella più antica Chiesa sotterranea di Milano. Questo spazio carico di spiritualità ospita tre video installazioni che descrivono i grandi temi della vita – la nascita, la morte, la rinascita e la coscienza umana.

Dal 18 Ottobre al 28 Gennaio 2018, la Cripta del Santo Sepolcro a Milano sarà teatro di un intervento  artistico di grande risonanza.

Gli ambienti di uno dei luoghi più ricchi di spiritualità della città si apriranno alle opere del rinomato artista Bill Viola (New York, 1951). La mostra, dal titolo Bill Viola alla Cripta di San Sepolcro, organizzata da MilanoCard in collaborazione con Bill Viola Studio, promossa dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana e che vede come Partner istituzionali Regione Lombardia e il Comune di Milano, presenta tre opere di Bill Viola capaci di creare una dialettica tra l’antica chiesa ipogea, sita nel cuore dell’antica Milano, con temi che Viola ha esplorato nei suoi lavori, come la nascita, la morte, la rinascita e la coscienza umana. Il percorso espositivo allestito nella Cripta del Santo Sepolcro – riaperta dopo 50 anni e diventata immediatamente tra le principali mete culturali a Milano, con oltre 40.000 visitatori, si apre con The Quintet of the Silent (2000), in cui un gruppo di cinque uomini in piedi, molto vicini tra loro, sono attraversati da un’ondata di emozioni intense che minaccia di sopraffarli. Quando la sequenza inizia, la loro espressione, inizialmente indifferente, si modifica fino a un livello estremo, dopo di che comincia a calare, lasciando ogni persona esangue ed esausta. La lentezza del video, che permette al visitatore di cogliere appieno il mutamento dell’espressione del volto e del corpo, è caratterizzato da un chiaroscuro di stampo caravaggesco.

Il secondo lavoro, The Return (2007), appartenente alla serie Trasfigurazioni, riflette sul passare del tempo e del processo attraverso il quale l’essere interiore di una persona viene trasformato. Bill Viola ha scritto: “Da uno spazio scuro e granuloso, una donna si avvicina lentamente a un limite invisibile. Il suo passaggio attraverso la soglia tra la vita e la morte è violento, e si muove con riluttanza verso la luce trasformandosi in un essere vivente.”

Il viaggio attraverso la Cripta si conclude con Earth Martyr (2014) una delle quattro opere che costituiscono la serie Martyrs, dedicata ai quattro elementi naturali (aria, acqua, terra, fuoco), inaugurata nella cattedrale di San Paolo a Londra nel Maggio del 2014. Il video mostra una persona sepolta in un cono di terra che inizia a salire, dando colpi al suo corpo, che inizia anch’esso a salire, essendo stato intrappolato dal peso della terra. Durante questo viaggio, lo spettatore si troverà in sintonia emotiva con le opere di Bill Viola. Queste infatti agiranno come degli specchi, riflettendo le nostre stesse emozioni, che l’architettura e l’antica storia della Cripta amplificherà. “Io e Kira siamo onorati dal fatto che queste tre opere d’arte in movimento saranno esposte nella bella Cripta del Santo Sepolcro. Le tematiche atemporali affrontate dalle opere sono fortemente connesse a questo spazio sacro, dove sono conservati i pensieri e le parole delle innumerevoli persone che abitarono queste stanze a volta nei secoli.” Particolari anche gli orari di apertura, tutti i giorni dalle 17 alle 22 (ultimo ingresso alle 21), che rispondono sempre più alle esigenze di un pubblico giovane e dinamico che trova tempo per visitare mostre e monumenti soprattutto nelle fasce serali contribuendo quindi anche a tenere viva la città. Sarà inoltre offerta, tutti i sabati, in collaborazione con Neiade, l’opportunità di una visita in notturna (alle 23.00) con un’esperienza carica di emozioni date anche dalla suggestione di questo luogo vissuto a tarda sera. “La Cripta di San Sepolcro, da quando è tornata alla luce un anno e mezzo fa, non smette di brillare e di sorprendere le decine di migliaia di visitatori grazie anche ad un’offerta di contenuti in continuo aggiornamento e capaci di rispondere alle esigenze di diverse tipologie di visitatori – dichiara Edoardo Filippo Scarpellini Amministratore Unico del Gruppo MilanoCard – e siamo davvero felici di poter contribuire concretamente e continuativamente per riportare ad antico splendore questo straordinario luogo che ha visto passare la storia e la ha custodita”Continue Reading..

13
Ott

Ugo La Pietra. Territori

In corso alla Galleria Bianconi di Milano la mostra “UGO LA PIETRA, TERRITORI”, seconda mostra personale che la galleria dedica a La Pietra nell’arco di un’anno e mezzo; più di 40  sono le opere esposte, realizzate dall’Artista tra il 1969 e il 2016.

In accordo con il concetto di Sinestesia delle arti, le tecniche che La Pietra utilizza e che sono qui rappresentate spaziano nei più diversi ambiti, dalla pittura su tela, al disegno, ai fotomontaggi e fotocollage, alle sculture in ceramica, talvolta anche combinate tra loro. Come scrive Giacinto di Pietrantonio nel testo critico del catalogo che accompagna la mostra, Ugo la Pietra “è un essere liquido che entra nei vari campi disciplinari con una libertà tale da prendere le forme di ciò che lo contiene, ma destabilizzandone le caratteristiche per proporne delle nuove. […]Si tratta di un continuo recupero e reinvenzione di tecniche e significati, a volte di riutilizzo e reimpiego alla ricerca di alternative dell’esistente per l’esistenza. In questo egli si serve della tecnica situazionista della dérive psicogeografica del corpo e delle immagini, o della progettazione spontanea che viene dal basso come nel caso degli orti urbani, microrealtà al di fuori dell’urbanizzazione cittadina.”

Tema fondante della mostra sono, come esplicitato dal titolo, i “Territori“ appunto, svolti ed esposti in questo contesto come in un percorso esplorativo che si snoda in differenti momenti ed ambiti: Centro/Periferia (1969/72), Tracce (1969), Pulizia Etnica (1988/89), Casa e giardino: la mia territorialità (2000), Itinerari (1990/2000), La città scorre ai miei piedi (2000), Rapporto Città / Campagna (2015/2016).

Da sempre l’ambiente, o meglio il rapporto fra individuo e luogo abitato, fra società e città, costituisce il fulcro della ricerca aristica di Ugo La Pietra, ciò che emerge evidente da questa mostra, come scrive Di Pietrantonio, “è l’osservazione critica di La Pietra, una critica militante e permanente dell’esistente, soprattutto di quell’abitare che provoca alienazione, distruzione, ingorgo, ignoranza. Come si evince dalle opere in mostra è interessante notare che ciò avviene con opere che vanno verso il centro. Va da se che il centro verso cui si va non è solo il centro cittadino, partendo dalla periferia, ma il centro poetico, il centro della soluzione verso il quale ogni poetica tende. Ciò avviene mediante opere-analisi che ci parlano di come i territori sono stati ridisegnati geograficamente ed esistenzialmente dalle guerre e dalla pulizia etnica, c’è addirittura chi ha scritto che le guerre sono progettualmente interessanti in quanto il loro distruggere, il loro fare tabula rasa permette poi di dover ricostruire, insomma offrono occasioni progettuali (sic!). Naturalmente non Ugo La Pietra le cui opere in proposito sono una critica alla guerra e ai suoi effetti alla sua deterritorializzazione, in quanto le guerre riscrivono i territori attraverso la morte, mentre bisognerebbe farlo con Ugo sempre con e per la vita.”

Completa il percorso espositivo la video-istallazione “Percorsi Urbani”, appositamente realizzata site-specific per il piano inferiore della Galleria da Lucio La Pietra. Ispirata al gioco del Pachinko e alla sua apparente “imprevedibilità”, l’opera riflette sul modo con cui noi abitiamo la città, come dice Lucio La Pietra in merito alla città: “noi pensiamo di poterla usare liberamente ma, in realtà, i nostri interventi su di essa, i nostri movimenti, i nostri itinerari, si limitano a poche e semplici scelte reiterate, delimitate da rigidi schemi. L’unico modo per poter muoversi liberamente e quindi possedere la città, prescindendo dagli schemi imposti, è farlo attraverso percorsi mentali e non fisici”.

La mostra prosegue alla Galleria Bianconi di Milano  fino al 28 ottobre 2017.Continue Reading..

04
Ott

Confini apparenti di Josè Angelino e Tristano di Robilant

La galleria delle arti contemporanee Intragallery è lieta di presentare nei suoi spazi espositivi di Napoli, in occasione dell’apertura della stagione espositiva 2017 / 2018, la doppia personale Confini apparenti, di Josè Angelino e Tristano di Robilant, sabato 7 ottobre 2017, alle ore 11.30.

Per Tristano di Robilant è la seconda mostra organizzata dalla Intragallery. Dopo il successo ottenuto dalla prima personale nel dicembre 2015, e successivamente al suo impegno per la mostra tenutasi tra dicembre del 2016 e aprile 2017 al  “Museum of Contemporary Art San Diego”, la galleria ha chiesto al di Robilant di immaginarsi in un ideale dialogo con un altro artista, a lui affine, e da lui prescelto. Così Tristano ha invitato Josè Angelino, classe ’77, a intessere con lui uno stimolante confronto intergenerazionale tra le loro opere e le loro visioni. In mostra saranno presentate le sculture in vetro di entrambi gli artisti. Le sculture in vetro di Tristano di Robilant, con le loro irregolari e movimentate superfici, hanno un soffio di incompiutezza e casualità, dalle forme quasi liquide, apparentemente semplici ma non classificabili. “Non a caso si tratta di forme enigmatiche, nate da sogni che attingono a un continente interiore, un mare originario, ma anche a un altro io, il doppio che abita dentro di noi.” (Cit. Tanja Lelgemann) Per Tristano di Robilant la stretta collaborazione con artigiani e con i maestri vetrai di Murano è fondamentale: sono loro che riportano nella materia le sue idee trasformandole  in opere di una bellezza maestosa e ancestrale.

Le sculture di Josè Angelino sono costituite da scatole di vetro e ampolle, ove l’artista, dopo avervi creato un vuoto assoluto all’interno, vi immette gas Argon. La ricerca di José Angelino si fonda sul binomio arte-scienza, creando un nuovo linguaggio, derivato dalle materie più leggere e da profondi saperi, quali  la fisica, la filosofia e l’astronomia: partendo dall’analisi di quelle dinamiche naturali che si manifestano nello sviluppo di un evento, ne evidenzia preferenzialità ed organizzazioni, realizzando così uno strumento di indagine sull’indefinita linea di confine tra la necessità di accadere e l’adattamento all’ambiente. “Quella cui il pubblico assiste è  un’apparizione. Flussi di luce cangianti per forma e colore passano davanti agli occhi, indefinibili e impalpabili.  L’effetto è quello di una inarrestabile scrittura luminosa, metafora del divenire incessante”. (Cit. Anna D’Elia)

Ad accomunare i due artisti è la tensione creativa, il sentire poetico verso la leggerezza e l’impossibilità di osservare linee di confine che siano realmente nette, attraversando tutti gli apparenti confini legati alla fragilità della materia, per poi disvelarli nella loro realtà, esili limiti che non vincolano le loro visioni.Continue Reading..

04
Ott

Alessandro Bernardini. Fragile

Domenica 8 ottobre 2017 dalle ore 16.00, presso la Cannoniera della Fortezza del Girifalco a Cortona, inaugura la mostra dal titolo Fragile, personale di Alessandro Bernardini a cura di Tiziana Tommei. L’evento, patrocinato dal Comune di Cortona, si inserisce nell’ambito della programmazione 2017 relativa all’arte contemporanea in Fortezza, è organizzato da Art Adoption, associazione attiva nella promozione e diffusione dell’arte contemporanea, e presentato dall’associazione OnTheMove. La mostra è stata realizzata grazie al supporto tecnico di Self Fioa.

Fragile è il titolo del progetto site-specific ideato da Alessandro Bernardini per lo spazio che lo ospita, la Cannoniera della Fortezza del Girifalco. Il concept è già dichiarato attraverso la scelta dell’immagine simbolo, Strike. Una sfera lucida e specchiata che, rievocando l’arma-emblema della cannoniera, viene liberata di qualsivoglia valenza e rimando allo status bellico per divenire oggetto ludico e strumento di scena. L’intera mostra ha come apparente tema la guerra, ma come soggetto reale il gioco. Specificatamente, si mette in scena questo secondo elemento, facendo appello alla negazione del primo. La palla di cannone viene letteralmente svuotata di massa, quindi di significato: da proiettile diviene palla da bowling, assumendo parvenza e leggerezza di un decoro natalizia. In linea con la sfera, le armi non sono presenti, ma rievocate mediante surrogati, fino al paradosso: se un’asse di legno verniciata di bianco mima il profilo sinuoso di un fucile – Arma bianca –  uova intere e non svuotate “diventano” Mine. Il titolo della mostra cita invece l’omonima installazione, Fragile. Essa, al pari di Protezione – opera realizzata a quattro mani con Monica Nofri – prende spunto da un episodio storico: durante la seconda guerra mondiale la fortezza cortonese divenne rifugio di 250 donne, figlie di italiani all’estero. A tale memoria riporta l’assemblage di manichini femminili, mentre la componente umana, introiettata nella composizione mediante performance, definisce il senso della mise en scène. Il progetto sebbene muova dallo spazio, in ultima istanza riduce quest’ultimo a pretesto per avviare una riflessione sul concetto di speranza: ad essa, secondo l’artista, si può giungere solo attraverso il disincanto e la lucida consapevolezza del presente. Il filo spinato si disfa e distendendosi perde gli aculei, liberando da qualsivoglia trincea. Il generale, privo di corpo, abbandona il campo: il suo abito è vuoto e appeso ad una gruccia, mentre le sue scarpe sono divise a metà e dalla spaccatura fuoriesce catrame. Si ricostruisce, impilando i blocchi di cemento l’uno sull’altro – Componili –  e non lasciandosi abbattere dallo spettacolo di macerie, mentre sul versante spirituale, si rende manifesta con le opere C. R. e Imma-colata la presenza del divino, sofferente e segnato, ma perennemente forte e potente.Continue Reading..

26
Set

Silvia Celeste Calcagno. Il pasto bianco (mosaico di me)

In un rincorrersi di rimandi e citazioni, da The Naked Lunch (il pasto nudo), capolavoro letterario di William Burroughs alla libera e omonima versione cinematografica firmata da David Cronenberg, Silvia Celeste Calcagno mette a punto un nuovo importante progetto realizzato per la personale a cura di Davide Caroli negli spazi della Biblioteca Classense di Ravenna, nell’ambito della Biennale di mosaico. La mostra nasce in collaborazione con il MIC Museo Internazionale delle ceramiche in Faenza.

L’artista utilizza ancora una volta la ceramica, linguaggio con il quale ha da tempo trovato la sua cifra distintiva e originale ponendolo in dialogo con performance, installazione e fotografia. In questo caso l’indagine si arricchisce di un ulteriore elemento che chiama in causa il mosaico. Silvia Celeste Calcagno, che nel 2015 ha vinto il 59 Premio Faenza con Interno 8 La fleur coupée, composta da infinite tessere, aveva già intuito la potenzialità di questa espressione frammentaria, quasi un cut and up per riprendere ancora il riferimento a Burroughs e al suo modo sperimentale di utilizzare la scrittura. Mosaico come frammento, particolare infinitesimo, dove unendo le tessere si ricompone alla fine l’immagine, ma non la narrazione e neppure l’identità. E SCC lavora, da una parte con il consueto atteggiamento introspettivo, dall’altra con visceralità talora dura e spietata, sulla sua identità di donna, alle prese con l’eterna contraddizione tra corpo, oggetto costringente, limitato, e l’aspirazione a liberarsi dal peso, evadere dal limite, farsi altro. Corpo che è innanzitutto materia, e come tale viene trattato, eppure sfugge dalla tentazione descrittiva, a cominciare dalla rinuncia al colore. L’universo del “mosaico di me” è bianco, acromatico, inessenziale e sfuggente. Ogni volta che tenta l’ascesa verso l’alto, qualcosa di fisico lo riporta a terra. Ne intravvediamo solo i frammenti, altro non è dato. Da qui, dunque, il pasto bianco, installazione che ricompone tessere di corpo, un corpo che si pone innanzitutto come cibo, un banchetto cui chiunque potrà sedersi e mangiare, come nelle tavole imbandite dal maestro del cinema surreale Luis Bunuel. Dice SCC, “bianco come il colore della mia carne, privo del peso specifico di un corpo senza volto -che dunque perde l’identità dell’io per trasformarsi in archetipo- a pezzi, senza un luogo, perso nel vuoto, a volte protetto a volte sporcato dalla manipolazione e dal lavoro sul materiale”. Il pasto bianco, installazione site specific, copre come una pelle parte dello spazio attraverso lastre in gres di vari formati che sviluppano una tecnica che vede la fusione tra fotografia e materia. Altra installazione in mostra Una storia privata, ulteriore riflessione sul rapporto tra noi e gli altri, con segni ancor più sfuggenti e minimi, di un corpo destinato a lasciare la propria fisicità.Continue Reading..

22
Set

Nan Goldin.The Ballad of Sexual Dependency

Un diario visivo autobiografico e universale sulla fragilità degli esseri umani, che racconta di vita, sesso, trasgressione, droga, amicizia, solitudine. Un work in progress avviato agli inizi degli anni Ottanta, riconosciuto tra i capolavori della storia della fotografia.
Il Museo di Fotografia Contemporanea, per la prima volta in Italia, presenta The Ballad of Sexual Dependency della fotografa statunitense Nan Goldin (Washington, 1953), a cura di François Hébel.

Lo sguardo di Nan Goldin abbraccia ogni momento della propria quotidianità e del proprio vissuto. L’artista fotografa se stessa e le travagliate vicende dei suoi compagni, nella downtown di Boston, New York, Londra, Berlino, tra gli anni ’70 e ’80. La sua è una fotografia istintiva, incurante della bella forma, che va oltre l’apparenza, verso la profonda intensità delle situazioni, senza mediazione alcuna. Nella totale coincidenza del percorso artistico con le vicende di una biografia sofferta e affascinante, Nan Goldin ha indubbiamente creato un genere: studiate, utilizzate e imitate in tutto il mondo, le sue immagini sono un modello rimasto intatto fino a oggi.

L’installazione è costituita da una scenografia ad anfiteatro che accoglie il pubblico e consente la visione dell’opera, un video che viene proiettato ogni ora. Completano l’esposizione materiali grafici e alcuni manifesti originali, utilizzati per le prime performance di Nan Goldin nei pub newyorkesi.

Il video, della durata di 42 minuti, viene proiettato nei seguenti orari:
10.40 / 11.25 / 12.10 / 12.55 /
13.40 /14.25 / 15.10 / 15.55 /
16.40 / 17.25 /18.10 /18.55 / 19.40

La Triennale di Milano
Nan Goldin.The Ballad of Sexual Dependency
A cura di François Hébel
19 settembre – 26 novembre 2017

Foto© Nan Goldin, Trixie on the cot, New York City 1979

18
Set

Davide Monteleone e Danila Tkachenko

La Galleria del Cembalo, in occasione del centenario della rivoluzione d’ottobre, propone tre mostre distinte, due di Davide Monteleone e una di Danila Tkachenko, dedicate all’anniversario

Dal 22 settembre all’11 novembre, presso la Galleria del Cembalo (Palazzo Borghese) a Roma, le mostre The April Theses e The Russian East di Davide Monteleone, Ritual di Danila Tkachenko – in maniera apparentemente documentali le prime due, visionario-metaforica la terza – saranno dedicate al ricordo della “Rivoluzione d’ottobre”.

Davide Monteleone – The April Theses
Nel Marzo del 1917, Vladimir Ilyich Ulyanov (Lenin), leader del partito rivoluzionario Bolscevico lasciò la Svizzera, dove era stato esiliato. Otto mesi dopo assunse la leadership di 160 milioni di persone occupando 1/6 della superficie abitata del globo. Il 9 aprile 1917, con il supporto delle autorità Tedesche, all’epoca in guerra con la Russia, tornò nel paese natio su un treno, attraverso Germania, Svezia e Finlandia fino a raggiungere la Stazione Finlandese di San Pietroburgo il 16 aprile dove, dopo un decennio in esilio, prese in mano le redini della Rivoluzione Russa.
Un mese prima, lo Zar Nicola II era stato estromesso dal potere quando le Armate Russe si erano unite alla rivolta dei lavoratori a Pietrogrado, la capitale russa. In un documento a punti, conosciuto come “Le Tesi di Aprile”, Lenin chiede il rovesciamento del governo provvisorio e delinea la strategia che, nei sette mesi successivi, porterà alla Rivoluzione d’ottobre e darà il potere ai Bolscevichi. 100 anni dopo, Davide Monteleone ricrea la cronologia delle due settimane di vita di Lenin prima degli eventi che hanno cambiato per sempre la Russia e il resto del mondo.
Alla ricerca del documento originale de “Le Tesi di Aprile”, Monteleone ricostruisce, e a volte ricrea, in un viaggio fisicamente reale, il viaggio epico di Lenin, inspirato dai documenti d’archivio trovati al R.G.A.S.P.I. (Russian State Archive of Soviet Political History) e a libri storici che includono “To Finland Station” di Edmund Wilson e “The Sealed Train” di Michael Pearson. Il risultato finale è una collezione di paesaggi contemporanei, fotografia forense di archivio e auto-ritratti posati che ripercorrono un viaggio nel tempo e nello spazio. La mostra è composta da una selezione di stampe dal libro “The April Theses” (Postcart 2017) presentata sotto forma di installazione.

Davide Monteleone – In the Russian East
Ispirato al capolavoro di Richard Avedon “In the American West” (1985) e al continuo fascino della Transiberiana, Monteleone guarda alla Russia per interrogarsi sul futuro del paese. Emulando Avedon nella tecnica e nei contenuti, Monteleone crea un parallelismo geografico e temporale tra Stati Uniti e Russia in un momento storico incerto nelle relazioni tra i due paesi. Come Avedon, si concentra sulle persone semplici, lontane dai centri del potere e, come moderni Oblomov, disinteressati ad esso. I protagonisti dei ritratti (discendenti di cacciatori d’oro e di pellicce, figli di sopravvissuti ai gulag, Ebrei dell’Israele Siberiana e, persino, eredi di imperi millenari come i Buriati o i mongoli di Gengis Khan) diventano icone della Russia contemporanea.
Le mostre “The April Theses” e “In the Russian East” sono realizzate in collaborazione con la galleria Heillandi di Lugano.

Davide Monteleone (1974) è un artista e un visual journalist che lavora a progetti indipendenti a lungo termine, usando la fotografia, il video e la scrittura. Si è dedicato allo studio di tematiche sociali, esplorando il rapporto tra potere e individui. Noto per il suo interesse specifico per i paesi post-sovietici, ha pubblicato quattro libri su questo argomento: Dusha. Anima Russa(Postcart, 2007),La Linea Inesistente (Contrasto, 2009), Red Thistle (Dewi Lewis/Kehrer/Actes Sud/Peliti, 2012) e Spasibo (Kehrer, 2013). I suoi progetti gli hanno portato numerosi premi e grant, tra cui diversi World Press Photo, l’Aftermath Grant, lo European Publishers Award for Photography e il Carmignac Photojournalism Award. Contribuisce regolarmente alle principali pubblicazioni in tutto il mondo e i suoi progetti sono stati presentati come installazioni, mostre e proiezioni a festival e gallerie in tutto il mondo, tra cui il Nobel Peace Center di Oslo, la Saatchi Gallery di Londra, la MEP di Parigi e il Palazzo delle Esposizioni di Roma. È impegnato in attività educative, tiene regolarmente lezioni e seminari all’università e workshop internazionali.

Danila Tkachenko – Ritual
Il nuovo progetto di DanilaTkachenko nasce da una riflessione sul centenario dalla Rivoluzione Russa (1917-2017). L’autore rende tangibile e concreta la metafora di “bruciare tutto ciò che è caro” e, letteralmente, brucia i simboli dell’era che si lascia alle spalle, creando spazio libero per un futuro promettente.
Già gli artisti delle avanguardie all’inizio del ventesimo secolo misero in risalto e anticiparono i drammatici cambiamenti che si venivano a creare nella struttura sociale. Da ciò, la necessità di costruire il futuro sulla base di nuovi ideali: per raggiungere questa utopia, sembra suggerire Tkachenko, è indispensabile bruciare, cancellare, tutto ciò che è statico, legato al mondo precedente e che ostacola il nuovo modo di pensare.
Le strutture in fiamme sono fotografate in zone rurali, in un iconico “campo libero”, e la luce del crepuscolo lascia a chi osserva la domanda irrisolta se si tratti del tramonto del vecchio mondo o dell’alba della nuova era. Otto immagini sono presentate in anteprima assoluta.

Danila Tkachenko è nato a Mosca nel 1989. Dopo un lungo viaggio in India si appassiona alla fotografia e si iscrive alla Scuola di fotografia e arti multimediali Rodchenko, a Mosca. Il suo primo lavoro, Escape, dedicato agli eremiti nella natura selvatica russa, riceve il plauso delle giurie internazionali e viene pubblicato nel 2014 in un volume edito da Peperoni Books. Nel 2015 esce il volume Restricted Areas, edito in Italia da Peliti Associati, promotore del premio European Publishers Award for PhotographyContinue Reading..