Il 10 novembre 1966 la Signora Margherita von Stein inaugurava in Via Teofilo Rossi 3 a Torino una nuova galleria con una mostra personale di Aldo Mondino. Christian Stein fu il nome d’arte scelto dalla Signora per sé e per la Galleria, destinata a diventare un punto di riferimento internazionale in particolare per la corrente dell’Arte povera.
Oggi – cinquant’anni ed oltre 250 mostre dopo, chiusa la Galleria di Torino e attive le due sedi di Milano – la Galleria Christian Stein celebra l’anniversario con una doppia esposizione dedicata a Giulio Paolini negli ambienti di Corso Monforte 23, in centro città, e di Via Vincenzo Monti 46 a Pero, nei pressi di Milano.
Giulio Paolini (Genova, 1940), protagonista dell’arte concettuale, espose una prima volta a Torino in Via Teofilo Rossi nel 1967 e in seguito, in varie altre occasioni, al nuovo indirizzo di Piazza San Carlo. Negli anni rimase sempre vicino alla Galleria oggi diretta da Gianfranco Benedetti che, dal 1971, affiancò la Signora Stein poi scomparsa nel 2003.
Per questa esposizione l’artista ha scelto di presentare negli ampi spazi di Pero alcune opere particolarmente significative e di grande formato datate dagli anni ’70 ad oggi. Il percorso segna le tappe più importanti dell’evoluzione artistica di Paolini che ha personalmente effettuato una scelta di opere storiche in dialogo con tre interventi inediti. Dialoghi che si articolano in sei capitoli espositivi corrispondenti alle sei sale a disposizione. Degli anni ‘70 i calchi in gesso dal titolo “Mimesi” (1976-88) a proposito dei quali l’artista scrive “dei due esemplari identici, posti l’uno di fronte all’altro, di una stessa scultura antica, l’intento è di cogliere la distanza che li separa e il vuoto che l’opera crea intorno a sé sottraendoci la facoltà di possedere il suo impenetrabile significato”. Esemplare della ricerca degli anni ’90 è l’opera “Hic et nunc (Le Radeau de la Méduse)” (1991) che evoca in termini metaforici la scena raffigurata nel dipinto di Géricault “La zattera della Medusa” e suggerisce con enfasi teatrale l’equilibrio instabile che presiede al compimento della visione.
In questa esposizione, come sempre accade negli allestimenti paoliniani, si avverte l’eco degli artisti del passato assunti come elementi vitali e insostituibili del divenire dell’opera: un “teatro” della rappresentazione senza tempo, sempre fedele a se stesso eppure ogni volta rinnovato.
Nella storica sala di Palazzo Cicogna, in Corso Monforte, Paolini presenta invece un’unica grande installazione dal titolo “Fine”, realizzata espressamente per l’occasione: un’opera complessa e articolata che tende a ripercorrere l’intera esperienza creativa dell’artista in un simbolico “viaggio di ritorno”. Attraverso un dichiarato riferimento a Jean-Antoine Watteau e al suo dipinto ”L’embarquement pour Cythère” (1717), Paolini mette in scena una sorta di grande zattera che ospita una varietà di oggetti, tutti provenienti dallo studio dell’artista, opere o semplici strumenti d’uso.
*Uno scritto di Paolini accoglie il visitatore e lo introduce alla lettura dell’esposizione.
Giulio Paolini (Genova, 1940. Vive a Torino)
Storicamente legato dal 1967 all’Arte povera e al contesto del concettualismo europeo, Paolini opera nella convinzione che l’arte del nostro tempo sia possibile solo come ripensamento e ricapitolazione della sua storia, non nella direzione eclettica e citazionista che si affermerà negli anni ‘80, ma in quella di un sottile gioco intellettuale, tessuto attorno ai fondamenti stessi della pratica artistica. Se in una prima fase Paolini si concentra sull’analisi dei supporti e degli strumenti del fare pittura (tela, telaio, cavalletto, colori, squadrature, tracciati lineari, ecc.) a partire dalla fine degli anni ‘60 si dedica a una ricerca, densa di riferimenti al passato, su alcuni concetti chiave della teoria artistica, dalla mimesi al rapporto fra autore, opera e spettatore.
Dalla sua prima partecipazione a un’esposizione collettiva nel 1961 e dalla sua prima personale nel 1964, ha tenuto fino a oggi numerose mostre in gallerie e musei di tutto il mondo.
Per informazioni analitiche sulle vicende biografiche di Giulio Paolini e l’elenco delle mostre: www.fondazionepaolini.it
Galleria Christian Stein
Milano, Corso Monforte 23 – Pero (MI), via V. Monti 46
Giulio Paolini. Fine
a cura di Bettina Della Casa
10 novembre 2016 – 29 aprile 2017
Pero, Via Vincenzo Monti 46: Dal martedì al sabato dalle 12 alle 19
Per informazioni: Tel. 02 38100316 info@galleriachristianstein.com
Milano, Corso Monforte 23: Dal martedì al venerdì: 10 –19, sabato: 10 – 13 / 15 – 19
Per informazioni: Tel. 02 76393301 info@galleriachristianstein.com
Immagine in evidenza: Giulio Paolini FINE, Galleria Christian Stein, Courtesy Artista e Galleria Christian Stein Milano. Foto Agostino Osio
*Testo scritto da Giulio Paolini in occasione della mostra
Giulio Paolini. FINE
Eccomi di ritorno, da dove? Dove potevamo mai essere arrivati? Ritorno (senza andata) da un luogo ideale, dimora della Poesia e della Bellezza, meta irrinunciabile per quanto irraggiungibile.Un’isola: il suo nome, Cythère, lo indicò tempo addietro Jean-Antoine Watteau, poi Charles Baudelaire e Paul Verlaine… ma nessuno riuscirà mai a superare la soglia dell’imbarco. Cythère è lì all’orizzonte, ma l’orizzonte non si tocca. E neppure riusciamo a osservarlo, possederlo… L’orizzonte è curvo, tende a disegnare un cerchio per arrivare a concludersi su se stesso. Un’isola è per definizione un luogo lontano, separato; se poi la scorgiamo all’orizzonte è come riconoscere la sua esistenza grazie alla distanza individuata dall’artificio di un tracciato prospettico. Tutto sempre s’infrange prima dell’approdo, forse già prima di mettersi in viaggio. “L’infinie tristesse” del quadro di Watteau (L’Embarquement pour Cythère, 1717) colpiva il pittore Deroy e non risparmiava certo emozioni e coinvolgimento ad altri autori sensibili a quella illustrazione del vuoto, dove tutto e niente sembrano sovrapporsi nella stessa dimensione. Drouais, Liotard, Chardin… fino a Joshua Reynolds, Hubert Robert e J. H. Fragonard furono devoti testimoni di quella scena struggente, sebbene a suo tempo al quadro fu rimproverata una certa “mancanza d’azione”. L’immagine del quadro (una riunione all’aperto di un assieme di otto coppie di figure e una statua – un’erma di Venere – Musée du Louvre) commuove e genera conforto e consolazione in chi, come noi, non riesce o non vuole imbarcarsi a raggiungere un traguardo così definitivo e assoluto. Ma prendere distanza, abbassare lo sguardo e socchiudere gli occhi pieni di lacrime.
“Ni le soleil ni la mort on peut les regarder fixement”, già aveva detto François de La Rochefoucauld a proposito dell’insostenibilità della visione quando la si voglia ricercare oltre il limite del visibile. Ancora oggi, o appena ieri, Giorgio De Chirico, Yves Klein, Lucio Fontana… ciascuno a suo modo indicano una dimensione, un aldilà capace di confutare il corso del tempo, di riportarci sulla soglia di quell’imbarco verso una meta sempre destinata a sfuggirci Tutto si può osare ma senza pretendere troppo: uno sguardo abbagliato dalla luce o ottenebrato dal buio perde il dono della vista così come il pensiero non può deviare dalla rotta predisposta al suo percorso. Restiamo allora al nostro posto, immobili ma attenti a osservare quanto ancora è visibile: addirittura a misurarlo, suddividerlo, ricomporlo o lasciarlo intatto. Il tempo scorre attraverso le ore e le stagioni ma ritorna sempre su se stesso: si ripete o non si è mai mosso. Ecco, l’isola è qui dentro di noi bagnata dal rimpianto di chi, rinunciato all’imbarco, disegna l’itinerario mancato per metterlo in cornice. Sono seduto al tavolo, nel mio studio: per quanto tenti di fare non riesco a liberare del tutto il piano di lavoro dalla valanga di notizie e indiscrezioni sull’attualità di questi giorni, sul glamour più stucchevole e scontato… Il mio sguardo finisce così sotto il tavolo, poco lontano dal cestino della carta straccia. Cosa è successo per provocare un mio tanto radicale ripensamento nei riguardi delle cronache che pur dovrebbero informarmi adeguatamente?
L’urgenza che ora mi coglie è motivata dal crescente sconcerto che provo e riprovo dinanzi all’assillante e grottesca preoccupazione espressa dalla quasi totalità del mondo dell’arte contemporanea per i destini del mondo (quello vero) e dalla necessità per noi di prenderne responsabilità e farcene carico in nome di una cieca venerazione della Natura. Quale vanità e soprattutto quale smisurato senso di superiorità e onnipotenza! Non posso evitare di leggere infelici espressioni di uso corrente come “fare arte”, “fare politica” o “fare sesso”. Mi limito a dire che l’arte fa da sé, non sa che farsene di noi e si manifesta senza interlocutori e intermediari. La sua parola – o il suo silenzio – sono quanto di più lontano dall’ambito di quella sconsiderata idolatria della comunicazione praticata dalle dilaganti kermesse di fiere e festival. L’arte al presente si affatica a trovare un’identità che nessuno è in grado di attribuirle. L’attenzione – voglio dire – è tutta rivolta ai dati di una sociologia dell’arte che incarna il vero e proprio peccato originale compiuto ai danni dell’essenza primaria, dello scavo in profondità nella dimensione unica, sempre uguale e sempre diversa che anima la sfera dell’arte. La parola dell’arte è il silenzio. Ritengo insomma superata la stagione delle prediche liberatorie: “la rivoluzione siamo noi” (ieri) o “salviamo il pianeta” (oggi). Nessuno dunque è in grado di “fare arte” perché è l’opera, essa stessa, ad accedere alla cifra segreta e immutabile della propria esistenza.
Un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore.
Questa esposizione nasce e muore nello spazio del mio studio: non un oggetto, una benché minima traccia materiale proviene dallo spazio contingente della vita vissuta. Quel che avviene, qui e ora, nella sede espositiva consente di evocare l’immagine di un’imbarcazione simulata e ancorata alla riva (alle pareti). Le opere e gli strumenti di lavoro che la costituiscono si confondono gli uni con gli altri per dar luogo a un assieme non ancora approdato al suo effettivo statuto. Nessun naufragio quindi visto che l’embarquement risulta adeguatamente custodito in una assoluta immobilità. Rimasti a terra, non resta che dedicarci all’osservazione di questa terra o abbandonarci alla visione di quell’isola immaginaria posta al di là dell’orizzonte ed evocata dalla nostra ostinata volontà di raggiungerla.
Proviamo a descrivere qualcosa che ci aiuti a individuare la direzione utile da perseguire.
Quante e quali sono le arti? Nominate così, al plurale, potrebbero essere nove: corrispondere cioè alle nove Muse, ciascuna delle quali però si limita ad annunciare un genere, senza poterne valutare concretamente numeri e figure. Clio, Euterpe, Talia, Erato, Polymnia, Calliope, Tersicore, Urania e Melpomene: Esiodo le enumera nella sua Teogonia, senza però specificare di quali arti siano le protettrici; Raffaello le evoca nel Parnaso dipinto nella Stanza della Segnatura in Vaticano…
Occorre però ammettere che le arti potrebbero essere migliaia, milioni se riferite alle innumerevoli opere che popolano collezioni, biblioteche e musei ciascuna intesa come espressione esclusiva di un’arte unica e originale. Tutte allora, in un modo o nell’altro, adeguate a quella regola non scritta ma sempre infallibile che le attesti come tali. Anche l’arte però deve pur rendere conto non certo a noi ma -se così si può dire- a se stessa. Deve cioè cogliere l’ispirazione che le consenta di costituirsi anima e corpo, assumere l’immagine sua propria e compiere il grande passo: manifestarsi, offrirsi alla nostra interpretazione senza trasmettere ad alta voce la sua indiscutibile verità. Dunque l’Arte (proprio con la “a” maiuscola) è una sola: una e inarrivabile è insomma la sua voce purché risulti osservante delle buone maniere, dotata di quella dovuta discrezione necessaria per accedere al nostro sguardo. Un solo principio sembra guidarla: mai guardare in faccia la realtà ma ritrarsi, con discrezione appunto, consapevole dell’ospitalità che seppure non richiesta potrebbe esserle concessa. Ma che cos’è, cosa sarà mai quell’immagine miracolosa capace di manifestarsi pur rimanendo segreta e di abbagliare lo sguardo innocente e indifeso dell’osservatore? Del resto, noi che guardiamo altro non vorremmo vedere se non quella luce, a rischio di perdere la vista. Di trovarci al buio impenetrabile dietro al sipario sulla scena dei nostri giorni.
Ecco: è l’Arte, calata nelle sembianze dell’opera qui davanti a noi. Sotto l’abito che indossa (olio su tela, matita su carta…) pulsa l’anima latente, universale e resteremo a lungo a chiederci il perché di questa nostra incrollabile devozione senza neppure pretendere risposta. Che altro c’è da scoprire, ammirare che non sia al di là della frontiera dell’Arte? Tutto ciò che tutti i giorni vediamo, leggiamo o ascoltiamo è una barriera sorda e opaca che non lascia trasparire il “non detto”, ovvero la parola dell’Arte. Parola che siamo noi a formulare senza però riuscire a pronunciarla. Parola impronunciabile perché non ci spetta, non appartiene alla nostra facoltà di dire;così come non siamo in grado di affermare qualcosa che ci supera e ci trascende senza rimedio. Il ritorno, è stato detto, non può essere che eterno: la sua apparente temporaneità potrebbe illuderci sull’eventualità di una nuova prossima partenza.
Ciò che resta da specificare è da (o per) dove aspettarci che avvenga. Nessun annuncio è peraltro atteso dove tutto sembra fermo, ancorato da sempre o almeno da qualche secolo.
Watteau (così come De Chirico, Yves Klein, Lucio Fontana…) sapeva che il Tempo è uno e per quanto illimitato immobile e sempre uguale a se stesso, anche se capace di apparirci nelle più diverse e inaspettate figurazioni. Quali e quante sono le immagini che si sono susseguite in questo senso? L’eternità può sembrare a volte a portata di mano, così come invece altre volte può sembrare una misura lontana o addirittura inesistente. Sta a noi concederle diritto di cittadinanza o al contrario esistenza puramente immaginaria.
Dunque dove siamo? Qui ovviamente, pur senza sapere di esserci. Se mai lo sapessimo, quanto ci stiamo chiedendo non avrebbe ragion d’essere. A che gioco giochiamo? A quel gioco che ci possa procurare in un modo o nell’altro il rischio che non possiamo evitare: restare immobili, senza però eludere l’estrema assoluta apertura che dobbiamo considerare come insuperabile dalle nostre limitate facoltà di interpretazione e giudizio.
<<Quando è il presente?>> si chiedeva Rilke e ancora noi ci chiediamo: dentro o fuori dal tempo? Prima o dopo? “Prima di morire” potrebbe essere una risposta, ma non è la risposta. L’articolo determinativo non è cosa da poco, è ben altro che un caso sintattico. È un giudizio, anzi la sentenza: solo l’Arte, eccezione o testimone dell’eternità, è in grado di risolvere le contraddizioni della cronologia, l’illusione di un’apparenza. Ma se – come si dice – l’apparenza inganna, dove mai potremo volgere lo sguardo? L’opera è lì, la vediamo ma non riusciamo a raggiungerla. Dunque, fissare in profondità fino a dimenticare il soggetto è la condizione necessaria per poter penetrare la superficie, il sipario che ci divide dal fondale su cui si muovono le figure precarie della scena quotidiana. Dietro alla quale a ben vedere scorgiamo il profilo immobile eppur mutevole, sempre uguale e sempre diverso, di un modello ancora sconosciuto, capace però di risvegliare nella nostra memoria un’antica e rinnovata “conoscenza”. Cinquant’anni di attività artistica, sempre protesa ad avvistare i segnali del nuovo, sono serviti paradossalmente a far arretrare le mie predilezioni di quasi tre secoli: oggi mi trovo a corrispondere con qualcosa che non mi è facile individuare e collocare nella tavola sinottica cui fare riferimento. Forse l’immagine più promettente, condivisibile, è un panorama di rovine classiche per la fascinazione che una tale visione procura ai nostri occhi, desiderosi di consolazione e riposo. Terra, cielo, personaggi come figure esitanti fra tanta grandezza che ci sovrasta e ci relega al ruolo complementare di pellegrini o viandanti: luoghi posseduti da qualcosa di superiore, inaccessibile ai nostri passi. Su quale lunghezza d’onda ci dovremmo attestare per rimanere in ascolto ed evitare così interferenze e abusi ai danni di un linguaggio corretto, idoneo alla nostra percezione? Niente – voglio credere – verrà concesso alle tante aberrazioni che sono oggi l’equivoco ricorrente dell’idea dell’arte. Di qualcosa che forse non è soltanto un’idea ma una verità – vera o presunta, assoluta o relativa non importa – della quale non ci è possibile fare a meno. Credo occorra a questo punto fare chiarezza: se da un lato, come appena detto, non possiamo fare a meno dell’arte è altrettanto vero che quella “verità” che abbiamo chiamato Arte può, anzi deve, fare a meno di noi. In altri termini voglio qui affermare la mia contrarietà a ogni tipo di partecipazione attiva o coinvolgimento, di interazione come si dice, sulle orme di quanto si usò chiamare “opera aperta” e che oggi diviene una sorta di intervento complementare cui lo spettatore è chiamato a sottoporsi per esplicitare il significato di un’opera. Insomma, che l’opera non possa valersi della corrispondenza con l’osservatore è perché semplicemente l’opera non vede, non può neppure concepire l’esistenza né tanto meno la presenza di chi la osserva. Forse davvero l’Arte non dice quale messaggio possa affiorare tra le righe, all’insaputa del lettore e dell’autore che credono di possedere quanto leggono o scrivono, attratti dalla “appropriazione indebita” fornita dal testo in questione.
Dire o tacere, esprimere o custodire sono fasi non sempre coincidenti, a volte contraddittorie nella memoria di chi scrive o disegna. Anche quanto ci è dato osservare non possiede un valido certificato di provenienza: impossibile tracciare un identikit dell’autore, sempre coinvolto o compromesso con le più diverse influenze o suggestioni. Così le “sue” opere esulano da quanto crediamo di sapere perché sottendono un’identità composita, derivata. La visione che si offre ai nostri occhi è dunque tutt’altro che virginale, è anzi un mosaico composto dalle tante tessere che costituiscono il cielo stellato delle immagini conosciute finora. Non solo, ma forse anche di quelle che potrebbero annunciarsi in seguito… È grazie all’eventualità che passato e futuro arrivino a sovrapporsi e a coincidere che possiamo credere all’ipotesi di un’immagine data per sempre e da sempre esistita. Le innumerevoli varianti di quell’annuncio originario, apparentemente sempre diverso anche se sempre uguale a se stesso, ci inducono a prendere atto di qualcosa d’inconoscibile sebbene posto in piena luce e proprio qui davanti a noi. Essere e non essere, è questo il traguardo posto a distanza come punto d’arrivo. Non un’eventualità, tanto meno un’alternativa ma un segnale d’arresto: lo Zero, la sospensione di ogni scelta o valutazione su ciò che oltre tutto – come sappiamo – non potrà certo accadere.
Ora e mai più, dunque. Istante ed eternità allineati al punto di partenza senza la prospettiva dell’arrivo. Una coreografia immobile, scandita da un tempo continuo, dalla “tabula rasa” che sembra appunto azzerare ogni mutazione significativa. L’acrobatica sostituzione della o con la e potrebbe generare incredulità e smarrimento, un non-senso difficile da concepire. Occorrerebbe davvero una troppo ardua astrazione per poterne dominare gli effetti. A darne voce è L’Indifférent, personaggio leggero e quasi sospeso in un passo di danza che proprio Watteau ci mostra in un suo piccolo quadro del 1717 esposto al Louvre. Figura che conosco e frequento da quando, tempo fa, lo indicai come elegante interprete della mie Fausses confidences, edite da Einaudi nel 1983. Guardare un quadro significa vederlo a occhi chiusi, dimenticarlo – e quindi esserne osservati – come accade a chiunque riesca a trovarsi in condizioni normali (per esempio in un museo o a teatro) piuttosto che in condizioni accidentali (per esempio nella vita).
Prendere distanza da ciò che ci tocca, mettersi in viaggio senza muovere un passo. Guardare, vedere, dimenticare… Andata, ritorno, fine.
P.S. Qui doveva concludersi questo scritto, dando luogo e lasciando spazio all’immagine che ne illustra il percorso: un’imbarcazione ferma, ancorata a un prima e a un dopo che ne indicano l’immobilità, l’impossibilità a muoversi in una direzione o nell’altra dato che la direzione obbligata è l’attesa di qualcosa di inattendibile. E qui dunque intendiamo restare, convinti di coltivare l’illusione di poter accogliere l’immagine da sempre annunciata ma tuttora sconosciuta. La fine, appunto, così irresistibile e assoluta da non ammettere commenti. Eppure proprio dalla fine potrebbero scaturire chissà quanti e quali argomenti fondati sul nulla o quanto meno su qualcosa di estraneo ai parametri che condizionano ogni nostra attitudine a dire o pensare. Tacere – questo sì – potrebbe forse avviare una diversa trama comunicativa, meno ricca e apprezzabile di quella che siamo abituati a esercitare, ma certamente più degna di essere compresa e interpretata. È dal silenzio che può dischiudersi la soglia del Sublime, la soglia di quell’incantevole ed ermetica “sala d’attesa” senza via d’uscita perché dotata di luce propria e di echi impercettibili che abbiamo l’impressione d’intendere. Otium et solitudo non possono abbandonarci se sappiamo accoglierli come ospiti di riguardo. E ancora: o non più, se così è che vi pare… Quando mai, detta l’ultima parola, ci si rassegna davvero al silenzio? Se così è, ma non ci pare, saremo pronti a smentirci, ovvero a ripetere altre volte quelle che sembravano essere le parole dell’ultima volta.
E allora?