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Mustafa Sabbagh. Mytho-maniac

30 Settembre 2017 - 12 Novembre 2017

E l’immagine divenne Mito, la carnalità di corpi ipercontemporanei contrappunta un gesto artistico atavico. CreArte Studio  è  orgogliosa di presentare mytho-maniac, progetto espositivo di Mustafa Sabbagh a cura di Carlo Sala.

Il campo di indagine entro cui agisce Sabbagh possiede la stessa plasticità liquida di una composizione (anti)musicale di John Cage, di una performance (anti)artistica di Hermann Nitsch, di un (anti)romanzo di Jean Genet, di un’opera (anti)teatrale di Carmelo Bene. Nutrito di simbologie antiche e di distorsioni elettroniche, il campo di indagine di Mustafa Sabbagh è l’habitat di un funambolo che avanza sapiente, potente, tra l’iconoclastia di un falso mito omologato e l’iconolatria di un contemporaneo Olimpo languido – nero, carnale, crudo, ieratico, lascivo, crocifisso, imbavagliato. Patologico. Mitologico. Tra l’ossessione emblematica del loop e il lirismo di uno sguardo in piano-sequenza, mytho-maniac è un pantheon post-umano che Sabbagh erige ponendo in un dialogo impossibile – come in ogni narrazione mitica, e in ogni autentico atto artistico – una selezione di opere tratte dalla sua serie “Onore al Nero” – un’Artemide assorta, un fauno adescatore, un Giano inquieto, sigarette come effimere Vanitas – unitamente ad un’opera inedita dal ciclo “Voyeurismo”, notturno orfico, con due tra le sue video-installazioni più celebri: “Chat Room”, connessione/confessione via chat di una complicità offline tra Cristo e Giuda, e “Anthro-pop-gonia”, dittici cinetici di vizi appartenenti tanto agli uomini, quanto a semidei nevrotici. Come le più grandi rese artistiche del mito – dall’epopea allucinata di Matthew Barney all’epica estenuante di Jan Fabre, dall’Alcesti in viraggio blu di Robert Wilson all’Orfeo sambista, nero, di Marcel Camus – Mustafa Sabbagh infetta miti e archetipi atemporali con la cultura virale di un social network, e con quella antivirale di una mente raffinatamente indipendente. Il Mito del Buon Selvaggio di Rousseau e il Mito della Caverna di Platone si scontrano e fanno l’amore, come nel Crash di Cronenberg, con gli anti-miti di China Blue, di Birdman, di Querelle; le magnifiche creature che ne scaturiscono, come semidei, sono inevitabilmente infette, come dei1.

Alla vastità di contenuti che affolla l’abisso mitopoietico di Mustafa Sabbagh – dialoghi di Platone e chat room notturne, grandi parate militari e storiche sfilate di Alexander McQueen, il Prometeo mal incatenato di André Gide e l’Ercole culturista di Werner Herzog, campionati, mixati e rieditati attraverso l’unico filtro del suo gesto artistico, anarchicamente punk – fa da contrappunto una sintassi compositiva riconoscibilissima. Il lessico artistico di Mustafa Sabbagh è costituito, nella fotografia come nel video, da un uso rarefatto del tempo, da ottiche che indulgono nei primi piani, da gestualità plastiche mai enfatiche, da una padronanza architettonica degli spazi e delle tecnologie nell’atto installativo, da suoni composti dall’artista, distorti a partire dalla conoscenza delle partiture: bombardamenti campionati e respiro fuori-sincro per Chat Room, singole sonorità elettroniche per ognuno dei dittici di Anthro-pop-gonia che, composte in scala di mi, producono un’allucinata sinfonia corale. Miti come emblemi e come esseri umani, che chiedono e trovano asilo indipendentemente da quale olimpo, larario, vangelo o xanteria provengano. Quella di Mustafa Sabbagh è un’arte pensante, che nasce sempre da profonde riflessioni e che nelle sue effigi – dinamiche nella sua fotografia, cristallizzate nella sua videoarte – congela urgenze etiche sotto le spoglie della più raffinata forma estetica. Muovendosi tra le cyber-vestigia di un microcosmo sempre al confine tra il distopico e l’utopico (dunque, nel più autentico umano), Mustafa Sabbagh affida infine all’osservatore, libero di attribuire alla sua arte un senso innescato ma mai fatto deflagrare, il potere supremo della dissolvenza, compendiata in mytho-maniac in una installazione a muro dei libri d’arte dedicati alla mostra: un lucido fade-out di una sua immagine che lentamente, dallo spettro cromatico, tornerà al nero assoluto, come dichiarazione simbolica «che ogni mutilazione dell’uomo non può che essere provvisoria, e che non si serve in nulla l’uomo, se non lo si serve tutto intero2». Come rileva Carlo Sala nel testo critico a suggello della sua curatela, «le figure de-mitizzate che popolano le installazioni di Sabbagh escono dai canoni delle narrazioni fondative e vogliono essere lo strumento per problematizzare e comprendere alcuni mutamenti che toccano l’uomo e la società del presente». Ecco il senso ultimo della parabola del Mito nell’arte di Mustafa Sabbagh. Le sue icone, come Narciso, invitano allo sguardo; attraverso esse Mustafa Sabbagh, come Prometeo, ci dona il Fuoco.

[comunicato stampa a cura di  Fabiola Triolo]

1 «Quelli che ci siamo lasciati alle spalle sono solo spettri verbali, e non i fatti psichici che furono responsabili della nascita degli dèi. Noi continuiamo a essere posseduti da contenuti psichici autonomi come se essi fossero davvero dèi dell’Olimpo. Solo che oggi si chiamano fobìe, ossessioni, e così via. Insomma, sintomi nevrotici. Gli dèi sono diventati malattie» [Carl Gustav Jung, Opere, ed. Bollati Boringhieri, 1970-1979]

2 [Albert Camus, Prometeo agl’Inferi – in L’Estate e altri saggi solari, ed. Bompiani, 1959]

Testo critico
mytho-maniac, allegorie dell’umanità
di Carlo Sala

«Quella sua bianca e incomparabile nudità scintilla contro uno sfondo di crepuscolo. Le braccia nerborute, braccia d’un pretoriano solito a flettere l’arco e a brandire la spada, sono levate in una curva armoniosa, e i polsi si incrociano immediatamente al di sopra al capo»1. Queste sono le parole con cui Kochan, protagonista del romanzo Confessioni di una maschera (1948) di Yukio Mishima, descrive la visione in un libro del mirabile San Sebastiano (1615) di Guido Reni conservato a Palazzo Rosso a Genova. Il giovane ricorda come «nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene […] quasi un empito di rabbia»2. Il corpo martirizzato del santo diviene per lo scrittore giapponese il tramite per la scoperta della propria sessualità e per l’affermazione della propria identità, in contrapposizione alle convenzioni sociali in cui questa era ingabbiata. Ma quello che Mishima ci rappresenta è pure l’effetto prodotto da una grande opera d’arte, che può destabilizzare, travolgere e far riflettere, imponendo un dialogo profondo capace di colmare persino le distanze storiche. La sovrapproduzione di immagini digitali tipica dell’ultimo decennio ha invece accentuato, tra le sue varie conseguenze, un analfabetismo dello sguardo che si riverbera in chiavi di lettura preordinate e semplificate nella fruizione delle opere d’arte del passato, per cui i modelli iconici sono a torto percepiti come distanti dal vissuto e per questo ritenuti algidi e inerti.

Mustafa Sabbagh conosce bene il potere dei topoi visivi della storia dell’arte che nelle sue fotografie si innestano in una ricerca contemporanea perché, come ci ricorda lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman, l’anacronismo è «la maniera temporale di esprimere l’esuberanza, la complessità, la sovradeterminazione delle immagini»3  trovando all’interno dello stesso scatto un «montaggio di tempi eterogenei»4. Nelle opere di Sabbagh emergono dei motivi iconici richiamanti scientemente nella progettazione dell’immagine, figli di un inconscio («memoria involontaria» come direbbero Marcel Proust e Walter Benjamin) perennemente nutrito da stimoli culturali che vanno dalle arti figurative alla letteratura, dal cinema alla musica, dal teatro fino alle tendenze underground e all’immaginario del web. Nei lavori del corpus Onore al Nero (2014 – in corso), pur non realizzando delle citazioni puntuali, è presente un tripudio di corpi dalle pose classiche dove convivono posture e modelli iconografici tratti della storia dell’arte (dalle civiltà antiche al Rinascimento, dal barocco alla cultura fiamminga) che diventano il veicolo formale a cui collegare alcuni temi esistenziali legati alla contemporaneità. A parte pochissimi elementi – come una sigaretta o uno speculum – non vi sono segni che riconducono ad una temporalità precisa e anche il colore nero (con cui sono dipinti i corpi) astrae la narrazione, portando così ad una assolutizzazione dei temi trattati; inoltre, il cromatismo iterato sembra proteggere la nudità delle membra dagli sguardi giudicanti, e liberarla così da ogni forma di omologazione e controllo.

Per comprendere appieno questo lavoro, dove la ripresa di un modello convive pienamente con le tensioni individuali, è bene però fare un passo indietro e meditare sulla precedente produzione dell’artista. Com’è noto, Mustafa Sabbagh ha percorso una lunga carriera nell’ambito della fotografia di moda, collaborando negli anni Novanta con prestigiose riviste internazionali – un periodo in cui una parte consistente della fotografia internazionale era connotata da un interesse per il reale, per cui i principali temi trattati erano pertinenti alla sfera del quotidiano, rappresentato, senza censure, nei suoi vizi, debolezze, affetti, sentimenti e nevrosi. In un simile contesto l’autore, pur dovendo realizzare dei servizi su commissione in un sistema dominato da canoni estetici ben precisi e funzionali alla pubblicitaria, è riuscito a non tradire il suo ardente desiderio di verità che ha insinuato nella fashion photography, muovendosi così in linea con gli autori che hanno portato avanti le ricerche più innovative (ad es. Juergen Teller, Terry Richardson, etc.). Alcune immagini di quegli anni sono contenute nel volume About Skin (Damiani, 2010) e testimoniano proprio questo sottile equilibrio che l’artista ha creato tra lo statuto progettuale dell’immagine e l’evocazione di un realismo emotivo attraverso una narrazione che, seppur costruita a tavolino, mira a porre al centro l’uomo con le sue inquietudini ed esigenze. Questa tensione dicotomica tra realtà e finzione è la vera radice del suo lavoro, ed ha successivamente condizionato la nascita della serie Onore al Nero , dove le immagini di staged photography hanno l’ambizione di scandagliare interiormente la persona e rendere le figure ritratte degli archetipi della condizione umana nella sue varie sfaccettature. Negli scatti di questa serie è l’assenza di una linea prospettica ad estremizzare l’artificialità della narrazione, quasi che le figure fossero gli oggetti di uno still life : il fondale piatto obbliga lo sguardo a indugiare sui corpi, sulla pelle, sulla mimica facciale inscenata. Proprio dal contrasto tra la diversità dei due elementi fondativi della fotografia (progetto/costruzione – verità/psicologia) deriva la deflagrazione emotiva dell’immagine.

Nell’installazione video Chat-room (2014) ad essere inscenata è l’ipotetica conversazione tra Gesù Cristo e Giuda ai tempi del web 3.0: le due figure religiose, calate nei panni di due giovani, sono l’emblema di una riflessione universale su amore, perdono  e dolore che trascende la singola narrazione; a fare da paesaggio sonoro all’accadimento sono le registrazioni d’archivio di alcuni bombardamenti del Novecento (dalla seconda guerra mondiale al Vietnam) che appaiono come un grido di sofferenza per l’umanità intera. Un utilizzo di modelli classici (e precisamente dei miti antichi), piegati alla riflessioni contemporanee, è pure alla base dell’installazione Anthro-pop-gonia (2015). I sette video che compongono il lavoro sono improntati alla forma visiva del dittico (pur non mantenendo la tradizionale simmetria delle ante) che prevede, in questo caso, l’accostamento tra presenza iconica e paesaggio. Se nei dittici di epoca romana era generalmente impressa la figura valorosa del console a cui era donato e in quelli medievali primeggiava quella dei santi visti come exempla virtutis , al contrario i personaggi di Sabbagh hanno perduto la loro esemplarità diventando degli uomini comuni, anch’essi schiavi delle debolezze e patologie della società dell’immagine. Teseo è ritratto così nel momento in cui ha appena ucciso il Minotauro e, appagato per aver compiuto un atto violento, dal suo volto emergono uno sguardo spiritato e un ghigno inquietante: non ha nulla della fierezza di un eroe, semmai rivela la prepotenza di un giovane di strada. Arianna non è più disposta a tradire la sua patria per amore, per cui il suo volto è carico di malizia; la natura bestiale del Minotauro emerge invece nell’atteggiamento narcisistico di un culturista di colore che si compiace della propria forma fisica; l’immagine di Leda è priva dell’algida eleganza della pittura rinascimentale, e sopra la sua figura è proiettato esplicitamente un amplesso proibito; Pigmalione ha omologato la sua arte; infine, un Morfeo amorfo e un Ares subdolo sono gli ultimi due protagonisti di sette tableaux vivants che prendono vita attraverso movimenti minimi, proscenio di allegorie relative alla messa in discussione dei miti d’oggi (identità sessuale, famiglia, potere, razza), delle presunte certezze del presente, «idee comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero» che «non ci permettono di comprendere il mondo che viviamo e i suoi rapidi cambiamenti»5. Come ammonisce il filosofo Umberto Galimberti, «a differenza delle idee che pensiamo , i miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi che non sono logici […] sono comode, non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola ci rassicurano, togliendo ogni dubbio alla nostra visione del mondo»6. Per questo le figure de-mitizzate che popolano l’installazione di Sabbagh escono dai canoni delle narrazioni fondative e vogliono essere lo strumento per problematizzare e comprendere alcuni mutamenti che toccano l’uomo e la società del presente.

1 Yukio Mishima, Confessioni di una maschera, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 39.
2 Ivi, pp. 39-40.
3 Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 18.
4 Ivi, p. 25.
5 Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 12.
6 Ivi, p.11.

mustafa sabbagh mytho-maniac
curatela _ carlo sala
dal 30 settembre al 12 novembre 2017 vernice _ sabato 30 settembre ore 18.30
giovedì, venerdì 16.00 – 19.30
sabato 16.00 – 21.30
domenica 9.30 – 12.30 _ 16.00 – 21.30 altri giorni su appuntamento

crearte studio
palazzo porcia, piazza castello, 1 _ oderzo [tv]
tel +39 333 7474335 _ mail info@crearte-studio.it ufficio stampa press@mustafasabbagh.com

libro d’arte _ mustafa sabbagh. mytho-maniac  edizione limitata di 180 copie, samorani editore, 2017 formato: 59×44 cm | pgg. 48 | ill. originali: 25 interventi in parola _ carlo sala, fabiola triolo
progetto grafico _ aspirine di davide erbisti e gian pietro farinelli
isbn _ 978-88-90935-32-9

Dettagli

Inizio:
30 Settembre 2017
Fine:
12 Novembre 2017

Luogo

CreArte Studio – Palazzo Porcia
Piazza Castello 1
Oderzo (TV), Italia
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