Camera d’Arte

17
Mar

Nicola Samorì. Solo Show

Opening 18 marzo | h 19 -21

Monitor è lieta di annunciare la prima personale di Nicola Samorì (Forlì 1977) nei suoi spazi.

Nei suoi dipinti, sculture e installazioni, realizzati per l’occasione, l’artista invita lo spettatore a partecipare non solo a un contatto visivo, ma anche a un’esperienza profondamente fisica. Riuscendo a combinare, in maniera magistrale, una forte intensità ispirata all’estetica teatrale dell’arte rinascimentale e barocca con la perdita di controllo dell’Informale, le composizioni pittoriche di Samorì, così come le sculture, documentano la persistenza di un’impronta inattuale nel contemporaneo. L’artista ha, infatti, sviluppato un modo del tutto personale di relazionarsi con il corpo del Museo: manipola la sintassi di un vastissimo repertorio di opere e, nel momento in cui sembra saggiarne l’insostenibilità, ne documenta al contempo la vulnerabilità, sabotandone i codici con incursioni ingombranti oppure con spostamenti minimi. Ciascuna delle sue composizioni è segnata da una cerimonia di sistematica decostruzione, un dispositivo in grado di mettere in crisi nel minor tempo possibile la mano accademica. Diverse sono le overture che registrano il dialogo di Samorì con le opere: un nucleo trae origine dalla degenerazione di un progetto di forma condotta con controllo chirurgico; una precisione che si perde progressivamente nel tremolio del battito e nella stanchezza dei tendini. Altrove lo spettatore segue invece il confronto dell’artista con un ostacolo, che impone tenacia e rigore per essere vinto. L’inedito corpo di lavori realizzato da Nicola Samorì in occasione della sua prima personale da Monitor documenta un coro involontario, un insieme che si è precisato di opera in opera, con soggetti/oggetti in preda a un’urgenza infettiva. Le opere vivono di un’osmosi insistente che le costringe a imitare le sostanze delle altre, oppure a sottrarle l’un l’altra, in una continua compenetrazione della pittura nella scultura e viceversa. In questo coro si contrappongono una “Stanza dei fuochi” e una “Stanza delle crisi” che si danno battaglia per il consumo della loro stessa materia. I corpi in campo disegnano, infatti, una piccola Martiropoli assumendo e digerendo un ampio spettro di un’iconografia che ci restituisce la Roma Eterna. Così San Pietro, riverso in una grande tela centinata, sembra trattenere con un’ampia bracciata il suo stesso peso, un cascame di pittura scotennata che sotto la pelle opaca conserva i fluidi di Rubens. È il peso a parlare, sotto forma di tramonto di un’immagine, di crepuscolo che riverbera nella discrezione minuta – a tratti minimale – delle piccole tavole che lo avvicinano, apparizioni femminili dotate di una solennità sottilissima. Fra queste “Traspirazione della Vergine”, che innesca una conversione ottica di una Madonna fiamminga in una testa occultata da un burqa, non attraverso una prevedibile vestizione tramite pittura del soggetto, bensì tramite la spellatura della pellicola pittorica che porta alla luce il bruno della tavola sottostante.

L’elemento processuale è accolto anche ne “La Madonna dello zucchero”, che introduce un nuovo elemento nella composizione, prima d’ora inedito per l’artista: la pelle freschissima del volto è ridisegnata dal segno involontario di un insetto. Insetto che con un ricamo imprevedibile porta scompiglio nell’ordito di Memling, scrivendo il pensiero di Huberman in riferimento alle forme accidentali. Al gesto di Pietro fanno eco altre cadute, come quella della pelle di un San Bartolomeo da Luca Giordano (“Ascia romana”), verticalizzato, spogliato di paesaggio e “spopolato”. Il martire si apre sotto i colpi dello scalpello e la scultura classica presente ai suoi piedi nell’iconografia tradizionale viene sbalzata fuori diventando una testa senza tempo, scavata in un tronco fossile che presenta ampi brani di corteccia pietrificata. Sorveglia questo supplizio un altro legno, un palo con le sembianze del Risorto: una verticale simmetria spezzata, ancora una volta, dal lavorio degli insetti che ne hanno rimodellato i fianchi aggredendo i passaggi più morbidi del gustoso legno di noce. Persino in “L’estasi trascendentale dell’idolo anemico”, scultura in bianco statuario di Carrara, il marmo cariato e crivellato come pizzo pare il nido irregolare forgiato da batteri petrofaghi. Così come nella pittura l’artista procede per sottrazioni e per scavi che rianimano i modelli, così nella scultura Samorì sembra lavorare sull’idea di spontaneità facendo leva sui difetti della superficie e sulla perdita d’integrità: dalla difformità del legno fossilizzato al disegno di un tronco solcato dalle larve, dall’imitazione del segno spontaneo cesellato nel sasso all’interpretazione dei geodi.Continue Reading..

15
Mar

CANEVARI

Nascondere, cancellare, azzerare l’idea stessa dell’arte come espressione, rinunciare con estrema cura e molta pazienza alle possibilità metamorfiche del linguaggio, ostacolare il desiderio degli spettatori, spegnere lo sguardo, sospendere i giudizi: tutto questo lavoro del negativo si mostra nelle opere più recenti di paolo canevari.con la serie di monumenti alla memoria (dal 2011), una teoria di quadri neri ricavati da un campionario di geometrie che hanno a che fare con l’arte e l’architettura, la necessità di una separazione radicale del manufatto artistico dal contesto vissuto è in effetti un dato acquisito. Deposti gli strumenti e i materiali come le camere d’aria, i pneumatici, le tecniche vecchie e nuove, disegno e video, Canevari si domanda se sia possibile definire diverse regole di pensiero nei confronti dell’arte, elaborando per conto proprio una fisiognomica della cosa artistica che sottopone a innumerevoli prove. Questo è il suo modo perverso di azzerare i suggerimenti e le modalità tecniche della rappresentazione: che siano gli spettatori a determinare il senso, se ne hanno davvero intenzione e bisogno. In fondo l’arte non è che la sua enunciazione formale, una calligrafia in cui ritrovare il piacere sensuale della sottomissione a un ordine precostituito, autoproducentesi all’infinito. Cancellando dal lavoro tutti i riferimenti mondani, Canevari cerca e incontra l’essenza di un’iconografia tradizionale, benché ogni possibile figurazione anneghi nelle tele nere dei monumenti, vuoto simulacro metafisico di afflati soggettivi e intimisti. Ma nei nuovi lavori napoletani avviene un’alterazione, uno sviamento; dalle sagome maestose o minute che siano vediamo ora staccarsi superfici più leggere che fremono e s’increspano sotto la mano dell’artista. Queste superfici che emergono dal fondo in un rimando scultoreo sono in polietilene, la nera materia plastica che avvolge le balle dell’immondizia come un gigantesco sudario. Ciò che affiora è la premeditazione concettuale di un’etica in forma di ipotesi artistica: come non avvertire anche le flatulenze ribollenti della politica delle ecoballe campane e il dolore e l’impazienza di una intera comunità in balia di architetture effimere e mortifere? Nella cornice monumentale dell’arte tutte le forme di vita tornano ad agitarsi in un teatro barocco di pieghe su pieghe, linee su linee, archi su archi. Ed è solo un gioco di luci e di ombre quello che estrae molteplici immagini da un magma di percezioni indefinite, prese dalla storia dell’arte, ma non per questo meno reali dei pregiudizi fabbricati sotto i riflettori altrettanto luminosi dei media. Enfatizzando l’iconografia tradizionale di segni votati alla più radicale inespressività, in un linguaggio di pura astrazione, l’opera napoletana di canevari con un gesto poetico si riaffaccia sul mondo vissuto, che non è paesaggio famigliare e sfondo nature ma fondo oscuro, nera luccicanza di tutta la storia, di tutta l’arte, patrimonio di una moltitudine, fardello di ciascuno.

Paolo Canevari (Roma, 1963), cresciuto in una famiglia di artisti, dal bisnonno al padre, è oggi riconosciuto a livello internazionale: le sue opere fanno parte di importanti collezioni contemporanea come quelle del moma di new york, della Foundation louis vuitton pour la creation di parigi, del macro di Roma, del mart di Trento e Rovereto, del centro per l’arte contemporanea L. Pecci di Prato. Sin dalla sua prima personale nel 1991, in cui ha iniziato a usare camere d’aria e pneumatici, paolo canevari ha sviluppato un linguaggio personale teso alla rivisitazione del quotidiano e agli aspetti più intimi della memoria. La sua ricerca ha assunto negli anni una forte connotazione concettuale concentrandosi nell’impiego di simboli, icone e immagini che fanno parte della memoria collettiva, facendo uso di diverse tecniche e materiali, dall’animazione ai disegni di grande formato dai video alle installazioni. Tutto questo serve all’artista per destabilizzare ogni preconcetto ideologico stimolando il pubblico a un confronto diretto con l’opera e il suo significato.

Casamadre Arte contemporanea
Orario / hours
Lunedì – sabato / monday – saturday
10,30 – 13,30
16,30 – 20
Domenica / sunday
Chiuso / closed

Palazzo Partanna
Piazza dei martiri, 58
Napoli 80121
Tel. +39 081 193 60 591
fax: +39 081 197 088 67
info@lacasamadre.it

credit photo: Aldo Cicellyn

14
Mar

OFFICINE SAFFI. Artista in residenza: Silvia Celeste Calcagno

Officine Saffi presenta la seconda edizione di Artista in Residenza proponendosi come centro di diffusione e promozione culturale e di produzione artistica. Anche quest’anno il progetto di Artista in Residenza nasce dalla collaborazione con il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza. Verranno ospitati gli artisti vincitori della 59ma edizione del Premio Faenza, ed in particolare Silvia Celeste Calcagno, vincitrice per la sezione over 40, Helene Kirchmair e Thomas Stollar vincitori ex aequo per la sezione under 40 e Nicholas Lees a cui è stato assegnato il Premio Cersaie.

Artista in Residenza si svolge negli spazi delle Officine Saffi, che comprendono la galleria d’arte, il Laboratorio, l’alloggio della residenza. È un’opportunità di scambio di saperi che coinvolge gli artisti ospiti e l’intera comunità. L’esito di questa osmosi è il progetto finale che verrà esposto alla fine del programma di residenze presso gli spazi della galleria Officine Saffi, nella mostra dedicata. Attraverso la residenza, l’artista ospite ha l’opportunità di entrare a far parte dell’ambiente circostante e della cultura locale, interpretando e incorporando questi nuovi stimoli attraverso il medium di elezione di Officine Saffi, la ceramica.

Il primo degli artisti a dare il via al programma è Silvia Celeste Calcagno che sarà presente alle Officine Saffi fino a metà marzo. Innocent, L’ultima cena è il titolo del progetto che la Calcagno ha scelto di sviluppare durante la sua permanenza a Milano.

“L’installazione Innocent è un lavoro concettuale, la sua incubazione coincide con l’invito in residenza. La notizia divide in due momenti l’esistenza dell’artista: il prima e il dopo. L’esistenza prima di ricevere l’invito e l’esistenza successiva alla notizia. Per questo, il concetto stesso di Residenza d’artista viene stravolto: l’opera porta in sé non solo l’esperienza vissuta in loco, ma anche le fasi antecedenti, che sono parte stessa del progetto. Il concept di Innocent è, ancora una volta, una registrazione meticolosa, puntuale, addirittura esasperata delle emozioni e dello stato d’essere dell’artista. Quando l’artista riceve l’annuncio, si trova nella propria casa, l’appartamento che è stato lo sfondo di numerose opere. Le cose, però, sono cambiate e l’ambiente, percepito un tempo come luogo ospitale, è divenuto estraneo. Il luogo non “è” in se stesso, ma esiste in base alle emozioni e allo sguardo dell’artista, il luogo “è” attraverso l’occhio di chi osserva. Il dolore per il mutamento di un ambiente violato, un tempo amato, viene sintetizzato attraverso un oggetto simbolo della vita quotidiana: il freezer. Una serie di constatazioni fotografiche, tradotte in ceramica secondo la tecnica sperimentale della fotoceramica ad alte temperature, inquadra l’interno di un freezer vuoto, le cui pareti sono divorate dal ghiaccio. Un’immagine, ripetuta in modo costante, attraverso scatti differenti l’uno dall’altro, pur se per particolari impercettibili, che simboleggia un dolore glaciale. I sentimenti lasciano posto a una morsa: un freezer trascurato, che nessuno sbrina da tempo; una casa vuota. Sino a un richiamo macabro: le celle dell’obitorio. La vita dell’artista è sospesa, come i fiori incastonati nel ghiaccio o nella resina. Tanto belli e integri, quando pietrificati. Il desiderio dell’arte, prima ancora dell’arte stessa, restituisce la vita. Un tepore salvifico può sciogliere il ghiaccio. Accade, così, un nuovo passaggio puramente concettuale: il corpo rinasce e diviene sacrificio nel senso etimologico del termine: “si fa sacro”. Al punto da offrirsi agli altri come un dono eucaristico. Allo stesso modo in cui le uova, che riportavano l’impronta di Piero Manzoni, venivano distribuite dall’artista, nelle sue performance, perché il pubblico se ne cibasse, mangiando la carne di Manzoni. La seconda fase di “Innocent” è la narrazione del sacrificio. È una sorta di “Ultima cena” laica quella narrata, dove la rinascita passa dal dono del proprio corpo: fotografie dedicate a parti intime del corpo – pelle, seni, capezzoli, pube, cosce – sono donate agli altri. Sono il risveglio della carne, divenuta sacra nella benedizione dell’arte, e offerta in un dono-sacrificio agli altri. Il soggiorno in Residenza costituisce la terza e ultima fase dell’installazione: la Resurrezione. Dopo la morte apparente del freezer, l’offerta eucaristica di sé, l’artista registra, ora, il ritorno alla vita. Il riappropriarsi del proprio corpo e dell’anima, alla ricerca di una unità fisico-spirituale, leit motiv del percorso artistico negli anni. Il “genius loci” – la vita in Residenza- è il momento concettuale dell’elaborazione di questo terzo momento. La constatazione del ritorno alla vita. Un video, un audio, forse nuove immagini.”Continue Reading..

14
Mar

Lorenzo Vitturi. Droste Effect, Debris and Other Problems

a cura di Fantom
Inaugurazione: martedi 5 aprile 2016 dalle 18 alle 21
Aperta fino al 20 maggio 2016

Venezia, 1980. Vive e lavora tra Londra e Milano
Precedentemente pittore di scenografie cinematografiche, Vitturi ha trasposto questa esperienza all’interno della propria pratica fotografica, basata su interventi site-specific al confine tra la fotografia, la scultura e la performance. Nel lavoro di Vitturi la fotografia è concepita come uno spazio di trasformazione, ove le differenti discipline si fondono assieme per rappresentare una sempre più complessa realtà urbana. Vitturi ha recentemente esposto presso The Photographers’ Gallery a Londra, presso la Galleria Yossi Milo di New York, la Contact Gallery di Toronto ed il CNA in Lussemburgo. L’artista ha anche partecipato a diverse mostre collettive presso il Maxxi di Roma, il Centre Georges Pompidou di Parigi, La Triennale di Milano, il museo d’Arte di Shanghai.
Dopo la collettiva Picture Perfect (Viasaterna, Milano), Droste Effect Debris and Other Problems è la sua prima personale in Italia.

VIASATERNA via Leopardi 32 20123 Milano
+39 02 36725378 info@viasaterna.com
Dal lunedi al venerdi dalle 12 alle 19
La mattina e il sabato su appuntamento
Chiusa il 3 e 4 maggio 2016
Immagine: Untitled – Red Tube #2 from the series Droste Effect, Debris and Other Problems,  2015
12
Mar

Stanislao Di Giugno. Deserted corners, collapsing thoughts

La galleria Tiziana Di Caro è felice di inaugurare Deserted corners, collapsing thoughts terza mostra nei suoi spazi di Stanislao Di Giugno (Roma, 1969), sabato 12 marzo 2016 alle ore 19:00, in piazzetta Nilo, 7 a Napoli. Il progetto espositivo include opere realizzate nel 2016, e si distingue formalmente da quanto presentato alle mostre precedenti (al 2008 risale una doppia personale con Alessandro Piangiamore presso gli spazi salernitani della galleria, mentre a dicembre 2009 si inaugurò Landescape sua esclusiva seconda personale).
La tendenza ad alterare la logica di senso è l’elemento che da sempre caratterizza il lavoro di Di Giugno che negli anni ha avuto un percorso trasversale, passando per la pittura figurativa, il collage, l’installazione spesso di matrice sonora, la scultura, la pittura astratta. Nella produzione dal 2014 ad oggi, nonostante l’autonomia totale del medium pittorico, Di Giugno sintetizza per intero il percorso effettuato dalle prime esperienze artistiche sino ad oggi, mantenendo una matrice formale sempre riconoscibile. L’artista è interessato ad esplorare le peculiarità fisiche dei materiali, prestando attenzione a caratteristiche quali il volume, la forma e la dimensione. Ne derivano forme astratte e geometriche che informano il suo immaginario, per essere poi utilizzate in maniera ripetitiva. Esse sono estrapolate da forme più complesse che l’artista estrae da varie fonti, in primis dagli oggetti di design, da parti di automobili, frammenti di billboard o pubblicità di magazine, che egli raccoglie ossessivamente come relitti di un paesaggio urbano in cui trascorre la sua quotidianità. È da tutte queste suggestioni che nasce la seduzione per le forme e per i gradienti di colore. Nei collage, nei lavori su carta così come nei dipinti Stanislao Di Giugno cerca di eludere il confine tra bidimensionalità e tridimensionalità, giocando sulle infinite possibilità e relazioni che si creano dalla giustapposizione di piani e tonalità. I suoi lavori sono dipinti per velature dove i primi strati vengono sostituiti quasi completamente da quelli che seguono, in perpetui ripensamenti che annullano il lavoro svolto, come in un costante sentimento di insoddisfazione. Alle volte, però, alcune porzioni resistono e nella composizione finale appaiono come rotture, come strappi di pagine sovrapposte in un collage o come impressione retinica di immagini scorse velocemente. Un altro elemento rintracciabile nella pittura di Di Giugno è la tensione tra il rigore formale, cioè il tentativo di semplificare la composizione attraverso geometrie e colori, e la gestualità di matrice più espressionista in cui la pennellata risulta visibile e incontrollata.Continue Reading..