Category: arte

11
Set

Corpo a corpo | Body To Body

La mostra analizza quel preciso momento in cui il lavoro degli artisti è caratterizzato dall’appropriazione di nuovi linguaggi che spaziano dalla danza all’evento, dall’happening al teatro, dalla pittura alla musica, dalla teoria alla scultura, dal cinema al video. All’interno di queste complesse vicende culturali, la mostra vuole ritagliare soltanto l’ambito in cui l’artista, lasciate le tradizionali forme dell’arte, utilizza il corpo come mezzo espressivo.

Un momento cruciale che copre i due decenni ’60 e ’70, anni di presa di coscienza e di autodeterminazione in cui si collocano le ricerche sperimentali che hanno declinato in vario modo le istanze femministe di alcune artiste come Marina Abramović, Tomaso Binga, Sanja Iveković, Ketty la Rocca, Gina Pane, Suzanne Santoro e Francesca Woodman e pioniere nella danza come Trisha Brown, Simone Forti e Yvonne Rainer negli scatti di Claudio Abate.

Negli ultimi anni il linguaggio del corpo è stato ripreso da artiste italiane dell’ultima generazione come la coppia formata da Eleonora Chiari e Sara Goldschmied, Chiara Fumai, Silvia Giambrone, Valentina Miorandi e Alice Schivardi – e del collettivo artistico con base a Parigi Claire Fontaine. Tutte hanno riattualizzato l’eredità ricevuta da chi le ha precedute, realizzando una serie di opere che compenetrano le ragioni dell’estetica con quelle della politica. Il loro lavoro ravviva quei caratteri che la critica americana Lucy Lippard riconosceva come contributo del femminismo all’interno della vicenda artistica degli anni ’70: un’arte che fosse “esteticamente e socialmente efficace allo stesso tempo” caratterizzata “da un elemento di divulgazione e da un bisogno di connessione di là dal procedimento e del prodotto”.

Ancora oggi la fotografia, il gesto e l’azione performativa sono gli strumenti ideali usati all’inizio degli anni ’60 dalle artiste per continuare lo scardinamento del linguaggio e dei mezzi espressivi classici e sottolinearne l’inadeguatezza. Il linguaggio verbale, infatti, spesso si è rivelato insufficiente per definire stati d’animo complessi. Per questo motivo la sua destrutturazione visiva, attraverso il collage e il video, è ancora fondamentale per esprimere sentimenti e punti di vista difficili da indagare con altri mezzi espressivi.Continue Reading..

07
Set

Jan Fabre. Maskers

Mi disegno sempre meglio. Comincio a conoscere il mio muso, la mia maschera. Ma che cos’è un autoritratto? Qualcuno che nega di essere morto.
Jan Fabre, Anversa, 3 febbraio 1980

Magazzino è lieta di annunciare Maskers, la sesta mostra personale in galleria dell’artista belga Jan Fabre, a cura di Melania Rossi. Il progetto raccoglie parte della produzione scultorea di Fabre che affronta il tema dell’autoritratto, sia come forma di indagine sulla natura umana, sia come tentativo di rappresentare e liberare le diverse personalità che compongono la propria identità. Quando siamo davanti allo specchio riusciamo davvero a vederci? Pensiamo di riuscire ad afferrare la nostra immagine, ma non possiamo mai farlo davvero. Il corpo umano è in uno stato di costante trasformazione e i già tanti volti che possediamo mutano inesorabilmente nel corso del tempo. Jan Fabre racconta l’inafferrabilità del “sé” attraverso una serie di sculture in bronzo dorato e cera dal titolo Chapters I-XVIII (2010), busti in cui l’artista si rappresenta con l’aggiunta di attributi animali. La metamorfosi dall’uomo all’animale e dall’animale all’uomo è centrale in tutto il lavoro di Fabre e qui, tra corna e orecchie multispecie, l’artista compone una sorta di bestiario antropomorfo, in cui la perfezione del dettaglio anatomico e alcuni elementi colorati nascondono significati ora autobiografici, ora simbolici. Fabre ci appare come un impunito satiro insidiatore, come uno spietato e diabolico dittatore, uno sfrontato ribelle, un saggio fiero e serafico o un vinto costretto allo scherno delle orecchie d’asino. Il risultato è di una teatralità che tocca tutti i generi della narrazione surreale, talvolta grottesca, ironica, oppure drammatica e perfino spaventosa.

“Il mio corpo è un serbatoio che contiene tutti gli elementi umani: ricordi, avvenimenti e identità”, scrive nel 1986 il giovane Fabre nel suo “Giornale notturno”. L’aspetto, il carattere, l’educazione e l’esperienza ci rendono ciò che siamo; potenzialmente, però, possiamo essere tutto e la nostra identità è un carnevale di personaggi che appaiono, scompaiono e convivono. Questa serie di autoritratti diventa così l’esposizione di una personalità complessa, in lotta tra volontà di attacco e necessità di difesa, tra furia e vulnerabilità. Una sorta di fantasma dai mille volti, in cui la fissità dei tratti è in realtà sempre diversa. Nella forma, il naturalismo di Fabre è quello della tradizione fiamminga, quello dei suoi ideali maestri belgi, di Pieter Paul Rubens, che realizzò molti autoritratti nel corso della sua vita, di James Ensor, il pittore delle maschere e della morte, a cui sembra fare riferimento il teschio bronzeo Vanitas Compass (2011), vitalistico “memento mori” fabresco. In mostra sono presentate anche delle vere e proprie maschere-elmi, alcune delle quali sono la versione in bronzo dei copricapi usati da Jan Fabre durante le sue performance, come Sanguis/Mantis (Helmet) (2006), che insieme alle maschere-volti della serie Chapters svelano e nascondono le ramificazioni dell’io dell’artista e dell’animo umano.Continue Reading..

06
Set

Mustafa Sabbagh. Mytho-maniac

E l’immagine divenne Mito, la carnalità di corpi ipercontemporanei contrappunta un gesto artistico atavico. CreArte Studio  è  orgogliosa di presentare mytho-maniac, progetto espositivo di Mustafa Sabbagh a cura di Carlo Sala.

Il campo di indagine entro cui agisce Sabbagh possiede la stessa plasticità liquida di una composizione (anti)musicale di John Cage, di una performance (anti)artistica di Hermann Nitsch, di un (anti)romanzo di Jean Genet, di un’opera (anti)teatrale di Carmelo Bene. Nutrito di simbologie antiche e di distorsioni elettroniche, il campo di indagine di Mustafa Sabbagh è l’habitat di un funambolo che avanza sapiente, potente, tra l’iconoclastia di un falso mito omologato e l’iconolatria di un contemporaneo Olimpo languido – nero, carnale, crudo, ieratico, lascivo, crocifisso, imbavagliato. Patologico. Mitologico. Tra l’ossessione emblematica del loop e il lirismo di uno sguardo in piano-sequenza, mytho-maniac è un pantheon post-umano che Sabbagh erige ponendo in un dialogo impossibile – come in ogni narrazione mitica, e in ogni autentico atto artistico – una selezione di opere tratte dalla sua serie “Onore al Nero” – un’Artemide assorta, un fauno adescatore, un Giano inquieto, sigarette come effimere Vanitas – unitamente ad un’opera inedita dal ciclo “Voyeurismo”, notturno orfico, con due tra le sue video-installazioni più celebri: “Chat Room”, connessione/confessione via chat di una complicità offline tra Cristo e Giuda, e “Anthro-pop-gonia”, dittici cinetici di vizi appartenenti tanto agli uomini, quanto a semidei nevrotici. Come le più grandi rese artistiche del mito – dall’epopea allucinata di Matthew Barney all’epica estenuante di Jan Fabre, dall’Alcesti in viraggio blu di Robert Wilson all’Orfeo sambista, nero, di Marcel Camus – Mustafa Sabbagh infetta miti e archetipi atemporali con la cultura virale di un social network, e con quella antivirale di una mente raffinatamente indipendente. Il Mito del Buon Selvaggio di Rousseau e il Mito della Caverna di Platone si scontrano e fanno l’amore, come nel Crash di Cronenberg, con gli anti-miti di China Blue, di Birdman, di Querelle; le magnifiche creature che ne scaturiscono, come semidei, sono inevitabilmente infette, come dei1.

Alla vastità di contenuti che affolla l’abisso mitopoietico di Mustafa Sabbagh – dialoghi di Platone e chat room notturne, grandi parate militari e storiche sfilate di Alexander McQueen, il Prometeo mal incatenato di André Gide e l’Ercole culturista di Werner Herzog, campionati, mixati e rieditati attraverso l’unico filtro del suo gesto artistico, anarchicamente punk – fa da contrappunto una sintassi compositiva riconoscibilissima. Il lessico artistico di Mustafa Sabbagh è costituito, nella fotografia come nel video, da un uso rarefatto del tempo, da ottiche che indulgono nei primi piani, da gestualità plastiche mai enfatiche, da una padronanza architettonica degli spazi e delle tecnologie nell’atto installativo, da suoni composti dall’artista, distorti a partire dalla conoscenza delle partiture: bombardamenti campionati e respiro fuori-sincro per Chat Room, singole sonorità elettroniche per ognuno dei dittici di Anthro-pop-gonia che, composte in scala di mi, producono un’allucinata sinfonia corale. Miti come emblemi e come esseri umani, che chiedono e trovano asilo indipendentemente da quale olimpo, larario, vangelo o xanteria provengano. Quella di Mustafa Sabbagh è un’arte pensante, che nasce sempre da profonde riflessioni e che nelle sue effigi – dinamiche nella sua fotografia, cristallizzate nella sua videoarte – congela urgenze etiche sotto le spoglie della più raffinata forma estetica. Muovendosi tra le cyber-vestigia di un microcosmo sempre al confine tra il distopico e l’utopico (dunque, nel più autentico umano), Mustafa Sabbagh affida infine all’osservatore, libero di attribuire alla sua arte un senso innescato ma mai fatto deflagrare, il potere supremo della dissolvenza, compendiata in mytho-maniac in una installazione a muro dei libri d’arte dedicati alla mostra: un lucido fade-out di una sua immagine che lentamente, dallo spettro cromatico, tornerà al nero assoluto, come dichiarazione simbolica «che ogni mutilazione dell’uomo non può che essere provvisoria, e che non si serve in nulla l’uomo, se non lo si serve tutto intero2». Come rileva Carlo Sala nel testo critico a suggello della sua curatela, «le figure de-mitizzate che popolano le installazioni di Sabbagh escono dai canoni delle narrazioni fondative e vogliono essere lo strumento per problematizzare e comprendere alcuni mutamenti che toccano l’uomo e la società del presente». Ecco il senso ultimo della parabola del Mito nell’arte di Mustafa Sabbagh. Le sue icone, come Narciso, invitano allo sguardo; attraverso esse Mustafa Sabbagh, come Prometeo, ci dona il Fuoco.

[comunicato stampa a cura di  Fabiola Triolo]

1 «Quelli che ci siamo lasciati alle spalle sono solo spettri verbali, e non i fatti psichici che furono responsabili della nascita degli dèi. Noi continuiamo a essere posseduti da contenuti psichici autonomi come se essi fossero davvero dèi dell’Olimpo. Solo che oggi si chiamano fobìe, ossessioni, e così via. Insomma, sintomi nevrotici. Gli dèi sono diventati malattie» [Carl Gustav Jung, Opere, ed. Bollati Boringhieri, 1970-1979]

2 [Albert Camus, Prometeo agl’Inferi – in L’Estate e altri saggi solari, ed. Bompiani, 1959]Continue Reading..

04
Set

IF (but I can explain), project room di Silvia Celeste Calcagno a Milano

La Nuova Galleria Morone presenta, nello spazio della project room “IF (but I can explain)”, mostra personale di Silvia Celeste Calcagno, che ripropone in forma leggermente ridotta il progetto site-specific curato da Alessandra Gagliano Candela, esposto fra gennaio e marzo 2017 nella Project Room del Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova.

“If (but I can explain)” è la formula finale, non definitiva, di una ricerca che Silvia Celeste Calcagno ha condotto nell’ultimo anno, registrando gradualmente il variare della sua condizione esistenziale e reificandola in una stanza, interiore ancor prima che esteriore, alla cui composizione hanno contribuito media diversi in dialogo continuo tra loro. E’ una situazione di sospensione,  evocata dall’installazione “Just lily”, in origine composta da oltre mille lastre in grès disposte sulle pareti della Project Room del Museo, in un continuum che unisce foto, oggetti d’uso, frammenti della quotidianità, tracce di un passato anche recente, brani di pareti, ritratti precisamente o solo evocati, dai contorni nitidi o sfumati. Un catalogo minuzioso di situazioni che ripropongono la sua vita in un luogo che presto dovrà abbandonare, momenti consueti che diventano unici. In sottofondo, l’installazione sonora “Could you please stop talking?” ispirata ad un libro di Raymond Carver, come in un mantra enumera brani di quotidianità e invita al silenzio l’altra persona che condivide lo spazio della vita. Il video, “Air fermé” registra lo scorrere impercettibile del tempo in un paesaggio urbano, segnato dal variare delle luci. La trama della tenda attraverso la quale avviene la ripresa offusca come un velo i contorni del mondo, agendo come un filtro sulla percezione.

Accompagnata dal catalogo edito da Silvana Editoriale che documenta il progetto realizzato a Villa Croce, con un’intervista di Ilaria Bonacossa all’artista, testi critici di Alessandra Gagliano Candela ed Angela Madesani, la mostra rimarrà aperta fino al 10 Novembre.

Silvia Celeste Calcagno è nata a Genova nel 1974, vive e lavora ad Albissola.Si diploma all’ Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Nel 2015 vince, prima donna italiana, la 59° edizione del Premio Faenza. Nel 2017 al Museo d’arte contemporanea Villa Croce, Genova, presenta IF (but I can explain) a cura di Alessandra Gagliano Candela. Nel mese di Aprile dello stesso anno, espone in Corea, In the Earth Time Italian Guest Pavilion Gyeonggi Ceramic Biennale Yeoju Dojasesang . La sua ricerca si basa spesso sul mappare determinate condizioni del vivere: la reiterazione è lo sviluppo primo che  permette di “fotografare” ogni sezione di esistenza, scansionarne ogni frammento. Nascono storie a “basso voltaggio”, situazioni in cui non accade nulla di eclatante, ma nelle quali si percepisce ,tuttavia, una sottile anomalia. Questo processo quasi alchemico distilla la realtà e dunque le emozioni ad essa legate, sublimandosi in un puzzle e rendendo finalmente completa la campionatura di un pezzo di “tessuto vita”.

IF (but I can explain) Silvia Celeste Calcagno
Nuova Galleria Morone, Via Nerino 3, Milano
21 Settembre | 10 Novembre 2017
Inaugurazione:21 Settembre 2017, ore 18
Orari: lun – ven: ore 11 – 19 | sabato: 15 – 19

Amalia Di Lanno, responsabile comunicazione per SCC

Immagine: Silvia Celeste Calcagno, IF, Installazione Fireprinting, 2017

04
Set

Giuseppe De Mattia. Dispositivi per non vedere bene Roma

Matèria è lieta di presentare Dispositivi per non vedere bene Roma, la prima personale a galleria intera di Giuseppe De Mattia.

La mostra presenta l’evoluzione progettuale del Dispositivo per non vedere bene, un’opera sperimentale realizzata da De Mattia nel 2014, che trova la sua totalità nello sguardo sulla città di Roma.

Le opere inedite presentate all’interno delle due sale e nel cortile della galleria sono il frutto del lavoro sul campo dell’artista. Dispositivi per non vedere bene Roma pone l’accento sull’importanza e la funzione dei materiali nel lavoro di De Mattia, mettendo in primo piano la collaborazione come strumento fondamentale per la ricerca e la produzione delle opere esposte. Nel tentativo di vedere Roma, l’artista si appoggia alla curatrice Chiara Argentino, all’artista Fabio Barile, al critico Luca Panaro, all’artista Stefano Canto, all’artista Luca Coclite e al gallerista Niccolò Fano.

La Capitale Italiana è il luogo scelto da De Mattia come emblema dell’inabilità di vedere con chiarezza e lucidità ciò che abbiamo davanti; una realtà sorretta e mitizzata dalla sua bellezza e rilevanza millenaria, in contrasto perenne con la precarietà contemporanea. È l’impossibilità di essere messa a fuoco che rende Roma l’apoteosi del paradosso che incarna il Dispositivo per non vedere bene; la cui funzione ultima è quella di mettere in discussione il ruolo controverso del mezzo fotografico come strumento storicamente eletto per la documentazione della realtà.

“Soli contro tutti”, così si legge sul fronte della cartolina, in piccolo, al centro, nello striscione. Gli artisti sono soli contro tutti. Questa la condizione per agire liberi, senza condizionamenti. Soli nel prefissarsi una meta, soli nel perseguirla, ma con qualche compagno di viaggio: Niccolò, Chiara, Fabio, Luca, Stefano, io. Non ci sono tifosi che sventolano bandiere, fumogeni che rendono variopinta la scena. C’è l’artista, Giuseppe, con la sua determinazione e il desiderio di “non vedere bene Roma”. N.B. nell’anno dell’addio al suo ultimo imperatore, Francesco. L’insieme delle opere sono un dispositivo che mostra qualcosa, ma solo in parte. Le parole che uso raccontano qualcosa, ma in modo incompiuto. Voi che osservate cogliete qualcosa, ma è vago. Dietro le immagini l’essere umano ne approfitta per scomparire. Rimangono solo tracce, oggetti, a testimoniare lo sguardo. Frammenti preziosi e irrisolti. Tessere che vanno a ricomporre un puzzle sempre diverso. Giornali, riviste, radio, televisione, web, informano. L’arte depista. Svia dalla strada più battuta. Suggerisce percorsi diversi.

Luca Panaro

Continue Reading..

30
Ago

Memorie vive

Apre ufficialmente i battenti a Roma un nuovo spazio dalla vocazione interdisciplinare: L29.  Il nome fa riferimento al luogo, Via Labicana 29, a due passi dal Colosseo, dove le artiste Flavia Bigi, Francesca Romana Pinzari e Gaia Scaramella hanno insediato i loro studi e uno spazio galleria no-profit.  L29 si distingue nell’area romana nell’intento di dar voce a un confronto tra gli artisti residenti e gli ospiti del mondo della cultura che saranno invitati di volta in volta per esporre i loro lavori, organizzare presentazioni, workshop e micro residenze. In occasione dell’inaugurazione le tre artiste residenti hanno deciso di ospitare dalla Francia la curatrice Madeleine Filippi, che curerà la prima mostra inaugurale Memorie Vive, invitando due artisti internazionali, Odie Chaavkaa e Mounir Fatmi, a dialogare con i lavori di Flavia Bigi, Francesca Romana Pinzari e Gaia Scaramella.

Memorie Vive è una riflessione sulla nozione e il legame tra la memoria individuale e quella collettiva nel processo di costruzione del concetto d’identità.

Le installazioni, i disegni e il video presentati si offrono come delle reminiscenze – e non come risultato di un percorso- per esporre altrettante diverse visioni e tragitti di riflessione. Come indica il titolo della mostra, l’interesse verte sulle vestigia, su quello che resta e che respira ancora, anche e soprattutto nel ricordo. La questione del tempo riveste quindi un senso particolare all’interno della mostra.  Non si tratta di mettere in scena un tempo della commemorazione ma piuttosto di giocare con le ellissi temporali e con la nozione scientifica di tempo alla ricerca della porosità della memoria. La memoria è viva, in continua evoluzione. Essa si nutre giorno dopo giorno di elementi sociali, politici e scientifici, dello spirito stesso del tempo che passa e di tutto ciò che può stravolgere i nostri ideali. Questo fenomeno è affrontato dagli artisti attraverso diverse procedure: Nel video di Mounir Fatmi esplicita è la citazione e il riferimento alla storia dell’arte. La tela di fondo del suo video è un affresco del Beato Angelico intitolato La guarigione del diacono Giustiniano sul quale l’artista fonde numerose fotografie e video di un’operazione chirurgica dei nostri tempi. Flavia Bigi rivisita la teoria delle idee  di Platone in chiave metaforica, con riferimento al nostro fragile momento storico. Odie Chaavka richiama le credenze animiste della cultura mongola. L’evocazione della temporalità e del suo legame con la natura è resa evidente dagli intrecci di rami spinosi e il processo di cristallizzazione di Francesca Romana Pinzari mentre negli orologi silenziosi di Gaia Scaramella l’umano sentire si decanta nelle gocce di cristallo come fossero lacrime stigmatizzate. Si investiga il dialogo tra la natura e l’uomo, l’intervento e l’interazione dell’uno sull’altro.Il sistema naturale rende ogni cosa perpetua, ciclica e perciò vocata all’immortalità. Qualunque sia la forma che la memoria assume, o qualunque sia il suo scopo, essa è destinata ontologicamente a resistere e a restare in vita. Questo bisogno di trasmissione del ricordo attraverso le nozioni di radici e di memoria collettiva non è altro che un ultimo tentativo di addomesticare il tempo. La memoria permette di definire l’appartenenza a un gruppo, e può essere anche imposta. La memoria individuale e collettiva si alternano cosi all’interno dell’esposizione. Gli artisti presenti in mostra hanno deciso di mostrarne la sua natura liberatrice e il potere individuale e sociale della memoria stessa.
L’esposizione memorie vive può suonare come un bisogno di utopia…
Madeleine Filippi

Memorie Vive
5 settembre – 15 novembre 2017 – L29 Art Studio
a cura di Madeleine Filippi
Artisti: Flavia Bigi, Odie  Chaavkaa, Mounir Fatmi, Francesca Romana Pinzari, Gaia Scaramella
Inaugurazione: 5 settembre 2017
H 18:00-21:00
Gli altri giorni: su appuntamento
Via Labicana 29, Roma
l29contemporaryart@gmail.com

Immagine: Flavia Bigi, House, 2017. Foto di Andrea Veneri

03
Ago

Lucio Fontana. Ambienti/Environments

“Ambienti/Environments”raccoglie nello spazio delle Navate per la prima volta nove Ambienti spaziali e due interventi ambientali, realizzati da Lucio Fontana tra il 1949 e il 1968 per gallerie e musei italiani e internazionali. La mostra propone un corpus di opere, che mettono in rilievo la forza innovativa e precorritrice di un grande maestro del Novecento.
Gli Ambienti spaziali, stanze e corridoi concepiti e progettati dall’artista a partire dalla fine degli anni ’40 e quasi sempre distrutti al termine dell’esposizione, sono le opere più sperimentali e meno note di Fontana, proprio per la loro natura effimera. Alcuni degli ambienti esposti sono stati ricostruiti per la prima volta dalla scomparsa dell’artista grazie allo studio e alle ricerche della storica dell’arte Marina Pugliese e della restauratrice Barbara Ferriani e al contributo della Fondazione Lucio Fontana.
Il visitatore ha l’opportunità di osservare e fruire per la prima volta le opere meno conosciute di Fontana, di riscoprirne l’importanza storica e allo stesso tempo di coglierne la contemporaneità e la forza innovativa attraverso un allestimento inedito.
Lucio Fontana (1899, Rosario di Santa Fé, Argentina – 1968, Varese, Italia) è stato uno degli artisti italiani più influenti del XX secolo e fondatore dello Spazialismo, gruppo artistico nato in Italia alla fine degli anni ’40. Nel corso della sua carriera ha investigato i concetti di spazio e luce, il vuoto e il cosmo e con il suo lavoro ha radicalmente trasformato la concezione tradizionale di pittura, scultura e spazio, superando la bidimensionalità della tela e anticipando diversi movimenti artistici degli anni ’60 e ’70, come Arte Povera, Arte Concettuale, Land Art e Environmental Art.
La mostra, a cura della storica dell’arte Marina Pugliese, della restauratrice Barbara Ferriani e del Direttore Artistico di Pirelli HangarBicocca Vicente Todolí e realizzata in collaborazione con la Fondazione Lucio Fontana, sarà accompagnata da un catalogo, edito da Mousse Publishing (novembre 2017), che presenta gli esiti più recenti della ricerca sul tema degli ambienti con un ampio apparato iconografico e testuale.

Lucio Fontana. Ambienti/Environments
A cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí
Pirelli Hangar Bicocca
Inaugurazione mercoledì 20 settembre 2017, ore 19
Dal 21 settembre 2017 al 25 febbraio 2018

31
Lug

La Terra inquieta

La Triennale di Milano e Fondazione Nicola Trussardi presentano La Terra Inquieta, una mostra ideata e curata da Massimiliano Gioni, promossa da Fondazione Nicola Trussardi e Fondazione Triennale di Milano, parte del programma del Settore Arti Visive della Triennale diretto da Edoardo Bonaspetti.

Una mostra per raccontare le trasformazioni epocali che stanno segnando lo scenario globale e la storia contemporanea, affrontando in particolare il problema della migrazione e la crisi dei rifugiati.

La Terra Inquieta prende a prestito il titolo da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, autore che ha dedicato la sua intera opera all’analisi e alla celebrazione della coesistenza di culture diverse. L’esposizione racconta il presente come un territorio instabile e in fibrillazione: una polifonia di narrazioni e tensioni. Attraverso le opere di più di sessanta artisti provenienti da oltre quaranta paesi del mondo – tra cui Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia – e con l’inclusione di documenti storici e oggetti di cultura materiale, la mostra parla delle trasformazioni epocali che stanno segnando lo scenario globale e la storia contemporanea, focalizzandosi in particolare sulla rappresentazione della migrazione e della crisi dei rifugiati.

La Terra Inquieta esplora geografie reali e immaginarie, ricostruendo l’odissea dei migranti e le storie individuali e collettive dei viaggi disperati dei nuovi dannati della terra. Il percorso dell’esposizione si snoda attraverso una serie di nuclei geografici e tematici – il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide, la migrazione italiana all’inizio del Novecento – a cui si intersecano complesse metafore visive di questo breve e instabile scorcio di secolo.

Ponendo l’accento sulla produzione artistica e culturale più che sulla cronaca, La Terra Inquieta si concentra in particolare sul ruolo dell’artista come testimone di eventi storici e sulla capacità dell’arte di raccontare cambiamenti sociali e politici. Mentre i media e la cronaca ufficiale raccontano di guerre e rivoluzioni viste a distanza, molti artisti conoscono e descrivono in prima persona il mondo da cui provengono i migranti. Le opere in mostra rivelano una rinnovata fiducia nella responsabilità dell’arte e degli artisti di raccontare e trasformare il mondo: non solo immagini di conflitti, ma anche immagini come terreno di incontro, scontro e scambio di punti di vista. Da questi racconti – sospesi tra l’affresco storico e il diario in presa diretta – emerge una concezione dell’arte come reportage lirico, documentario sentimentale e come testimonianza viva, urgente e necessaria.

La Triennale di Milano
Una mostra ideata e curata da Massimiliano Gioni
dal 28 aprile al 20 agosto 2017

Promossa da Fondazione Nicola Trussardi e Fondazione Triennale di Milano
Direzione Artistica Settore Arti Visive Triennale Edoardo Bonaspetti

Immagine: Runo Lagomarsino, “Mare Nostrum” (2016) COURTESY FRANCESCA MININI, MILAN AND COLLECTION AGOVINO, NAPLES

28
Lug

Cerimoniale di Eugenio Giliberti

La galleria delle arti contemporanee Intragallery, è lieta di presentare la mostra Cerimoniale di Eugenio Giliberti, negli spazi espositivi del Centro Caprense Ignazio Cerio, di Capri, con il Matronato della Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee 2017. L’esposizione interamente dedicata al Museo Ignazio Cerio,  è stata  inaugurata sabato 15 luglio 2017 alle ore 19.00, con la presentazione del prof. Aldo Iori, negli spazi di Palazzo Vanalesti, nei pressi della famosa Piazzetta, e sarà visitabile fino al 15 settembre 2017. Quest’ anno è stato prescelto l’artista Eugenio Giliberti, sempre sensibile allo spirito dei luoghi in cui espone, il quale, in seguito a numerosi sopralluoghi sull’isola,  e ispirato dalla collezione del Museo Cerio, realizzerà una installazione site-specic dedicata agli spazi espositivi del Centro Caprense, dal titolo Cerimoniale; Il titolo scelto dall’artista per la mostra, Cerimoniale, allude al riconoscimento e all’incontro della sensibilità dello scienziato (Ignazio Cerio) con la sua pratica artistica. Esso avviene in una sala decorata da una grande installazione composta da migliaia di dischetti imperfetti di legno di melo, testimoni della ricerca che l’artista Eugenio Giliberti conduce da anni intorno alle trasformazioni naturali e antropiche del territorio che lo accoglie orma da più di 10 anni. Il primo atto dell’innamoramento è il desiderio di conoscere tutto dell’oggetto amato. E’ ciò che ha spinto la sua poetica a rompere pretesi confini dell’arte, incamminandola in un’attività di registrazione di piccole variazioni e di indagazione, di potenzialità e relazioni, di conoscenza più profonda.

E’ ciò che spinge in generale la ricerca ad intraprendere il suo faticoso lavoro al di là dei possibili risvolti pratici.

La mostra si compone di quattro elementi:

gli strumenti:  alcuni strumenti e oggetti della ricerca artistica convivono con i reperti esposti nelle vetrine del museo le tavole di data-base: piccola galleria estratta dall’opera che da anni accompagna la cura della piccola piantagione di mele annurche della masseria Varco, disegni a matita che rappresentano uno stesso albero del meleto nei 4 anni di vita di “data – base”. Qui si richiama la dedizione all’osservazione e alla cura della natura che è lo spirito dell’opera, ma anche quello della collezione che consegna una coscienza del luogo alle generazioni future. La sala della potatura: una grande decorazione murale composta da migliaia di dischetti di legno ricavati dalla potatura del meleto dove si immagina lo svolgimento del cerimoniale in una sontuosa e ironica messa in scena il pianoforte muto: un pianoforte completamente rivestito da un robusto tessuto bianco cucito sull’oggetto da un’abile artigiana ricalca in negativo i rumori dell’isola turistica. L’elemento incidentale del pianoforte parla ancora una volta di cura, la cura dello strumento, la sua impropria vestizione, come metafora della cura dell’arte e del pensiero. Ma lo strumento vestito è anche imbavagliato: muto, rifiuta di confrontarsi con gli altri emettitori di suoni che della musica fanno sfondo, brodaglia sonora delle nostre distratte esistenze. L’artista ha lavorato più volte sull’isola, ma poi l’incantesimo con i luoghi si era interrotto, e non voleva più tornarvi, salvo poi ricredersi, dopo una attenta visita al Museo Cerio, accompagnato dalla Presidentessa del Centro, Anna Maria Cataldi Palombi.

Queste le sue preziose considerazioni: “Spesso, parlando della vita culturale dell’isola con amici o con frequentatori innamorati di Capri, sento come il continuo riaprirsi di una ferita. La ferita di chi vede nel turismo di cui vive l’sola una specie di macchia originale. Una cappa di volgarità dalla quale cercare di far riemergere una “storia culturale” negata. Ho avuto occasione diverse volte di esporre  miei lavori nell’isola. La prima volta ad Anacapri – era il 1983 – in uno stage organizzato da Gianni Pisani dove ebbi il mio primo confronto con altri artisti della mia generazione da cui poi scaturì l’idea di riunire un certo gruppo di giovani e giovanissimi nella mostra che prese il nome di Evacuare Napoli (1985); poi, nel 1987, nel cantiere dell’ex Hotel Internazionale situato nei giardini della Flora Caprense in una collettiva curata da Bruno Corà, “Avvistamenti, 4 indirizzi della giovane ricerca artistica”. L’ultima volta nel 2008 ma fu un infortunio… Avevo pensato di non volerne più sapere. Capri è ciò che è e non ha bisogno di niente. E tutti i discorsi nostalgici sul passato colto, sulle grandi frequentazioni intellettuali non appartengono più a un presente ineluttabilmente frivolo. Il Museo Cerio è il luogo che non ti aspetti, che esiste e non ti chiede l’esercizio del rimpianto. Un luogo anti nostalgico che ti racconta una visione diversa dell’isola, dà conto di una complessità solo apparentemente negata. Il lascito di Ignazio ed Edwin Cerio e l’azione dei continuatori di questa singolare istituzione culturale testimonia, al di là del tempo, di un’intensità possibile nella ricerca del perché dello stare al mondo. Anzi, dell’affermazione che lo stare al mondo è uno stato interrogativo. Una musica flebile emana dalle mura e dalle bacheche del museo Cerio. La musica di un atto di affetto costruito in più generazioni cui già dai racconti ho sentito una possibile affinità.”

Cerimoniale di Eugenio Giliberti
dal 15 luglio al 15 settembre 2017
Palazzo Vanalesti, Centro Caprense Ignazio Cerio, Capri

11
Lug

GIACOMETTI

Tate Modern presents the UK’s first major retrospective of Alberto Giacometti for 20 years

Celebrated as a sculptor, painter and draughtsman, Alberto Giacometti’s distinctive elongated figures are some of the most instantly recognisable works of modern art. This exhibition reasserts Giacometti’s place alongside the likes of Matisse, Picasso and Degas as one of the great painter-sculptors of the 20th century. Through unparalleled access to the extraordinary collection and archive of the Fondation Alberto et Annette Giacometti, Paris, Tate Modern’s ambitious and wide-ranging exhibition brings together over 250 works. It includes rarely seen plasters and drawings which have never been exhibited before and showcases the full evolution of Giacometti’s career across five decades, from early works such as Head of a Woman [Flora Mayo] 1926 to iconic bronze sculptures such as Walking Man I 1960.

While Alberto Giacometti is best known for his bronze figures, Tate Modern is repositioning him as an artist with a far wider interest in materials and textures, especially plaster and clay. The elasticity and malleability of these media allowed him to work in an inventive way, continuously reworking and experimenting with plaster to create his distinctive highly textured and scratched surfaces. A large number of these fragile plaster works which rarely travel are being shown for the first time in this exhibition including Giacometti’s celebrated Women of Venice 1956. Created for the Venice Biennale, this group of important works are brought together for the first time since their creation.

The exhibition also explores some of the key figures in the artist’s life who were vital to his work including his wife Annette Giacometti, his brother Diego and his late mistress Caroline. Alberto Giacometti’s personal relationships were an enduring influence throughout his career and he continuously used friends and family as models. One room in the exhibition focusses specifically on portraits demonstrating Giacometti’s intensely observed images of the human face and figure.

I am very interested in art but I am instinctively more interested in truth […] The more I work, the more I see differently
Alberto Giacometti

Tate Modern
GIACOMETTI
UNTIL 10 SEPTEMBER 2017